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L’Enfant, sesto lungometraggio dei Frères Luc & Jean-Pierre Dardenne, fu salutato a Cannes 2005 con una Palma d’Oro (riconoscimento già ottenuto a suo tempo nel 1999 con il film Rosetta), un premio si dice, non voluto da tutta la giuria, quest’anno presieduta da Emir Kusturica, ma un escamotage per porre fine alla diatriba tra i giurati che sostenevono Haneke e quelli che invece pendevano per Jarmusch. Sicuramente a chi scrive sembra aver prevalso una compromesso che premia così l’opus nel complesso della loro carriera; un lavoro che si distingue per un’idea di cinema molto vicina a quella poetica praticata da Cesare Zavattini, loro maestro fidato: il cinema dell’istante o del momento o ancora quello del pedinamento, ovvero il film che non è più un film, che crea un forte collegamento tra cinema e vita. La settima arte filma così quello che succede veramente, anche un avvenimento piccolissimo, che fugge dalle leggi del capitale, e deve costare pochissimo (la coppia lavora sempre con la stessa piccola équipe). I Dardenne sono garanti di un immaginario cinematografico che, saturo di spettacolarizzazioni audiovisive è diventato ormai inconfondibile, deprivato cioè di ogni velleità visionaria postmoderna, senza con ciò aderire a un realismo ingenuo e mistificatorio, portandosi dietro da un film all’altro la loro esperienza di documentaristi, e tal volta utilizzando anche gli stessi attori (come Jeremie Renier, il bambino de La promessa, che ritorna a lavorare con loro dopo molti anni). Il plot utilizza temi e ambienti sociali a loro cari, delineano alla perfezione ragazzi ai margini, devastati, costretti a lottare per la sopravvivenza e per i diritti negati, scontri generazionali e il difficile e dialettico rapporto genitore/figli. Così osserviamo la giovanissima coppia Bruno/Jérémie Rénier e Sonia/Déborah François avere un figlio, l’enfant appunto, affrontare prematuramente con questo evento il passaggio dall’immaturità dell’adolescenza all’età adulta. In L’Enfant, l’uso smodato di macchina a mano, montaggio scarno, zoom a ridosso dei protagonisti ottengono l’effetto di mostrare senza giudicare, simile all’effetto di un osservatore distaccato di cui ci avevano già abituati in una pellicola come Le Fils o come Rosetta. Uno sguardo profondo e intelligente sul mondo dell’adolescenza, qui in particolare nel sottotesto è la cura femminile ad essere affrontata, il ruolo sociale della donna viene all’inizio visto solo in chiave sessuale, ovvero guardando Sonia in termini assimetrici, in cui il rapporto natura/cultura risulta sbilanciato, rispetto al suo compagno. Sonia, è giovanissima e senza lavoro, ma il figlio lo vuole tenere a tutti i costi, mentre per Bruno, capo di una banda di baby ladri, non ha le idee chiare su cosa è la paternità, il figlio è una merce come un’altra: può essere venduta, tanto se ne può fare subito un altro… Ma Sonia si ribella al suo compagno e al mercato delle adozioni clandestine. Les Frères belgi attraverso lo stereotipo che la nostra cultura ci ha da sempre tramandato, quello che esiste solo l’istinto materno chiudono ogni problematica nella prima parte della pellicola, affidandosi alla biologia di Sonia. Stereotipo che alla fine i Dardenne cercano di accantonare, attraverso il gesto di redenzione di Bruno, il sentimento della cura viene così declinato al maschile, un sentimento che è nato e come tale va curato… l’istinto materno non è dato per scontato…
Articolo del
27/12/2005 -
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