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King kong è un po’ come Dracula. E’ una monolitica icona tra le più celebri del secolo scorso, entrata ormai nelle categorie mentali della gente. E’ una sorgente inesauribile della cultura popolare. Il solo confrontarsi con simboli del genere, si sa, è rischioso. E si possono scegliere varie strade, per farlo. Peter Jackson, recentemente voltatosi al più stimolante (e redditizio) filone del fantasy-colossal, ha scelto quella a lui più consona: un trionfo di effetti speciali da 200 milioni di dollari. Il fatto è che lo straripante ed occhialuto neozelandese, da sempre affascinato dal peloso gorillone, li spende bene, i soldi che ha a disposizione. E – a patto di giudicare il film secondo questa ottica – ha tirato fuori tre ore da fuochi d’artificio. Una specie di Jurassic Park elevato al quadrato. Un tripudio – anche esagerato: ma il film “vive”, secondo questa analisi, solo se esagera. Ricordate il flop de La guerra dei mondi? - di dinosauri, corse e lotte sfrenate, ammazzamenti, paesaggi impossibili, arrampicate e distruzioni da leccarsi i baffi. Ma, rispetto all’epopea jurassica, fornendolo di una base narrativa ben più solida, che “spinge” anche le sequenze meno brillanti sostenendo l’intero intreccio del film. E le tre ore corrispondono infatti – minuto più, minuto meno – ai tre snodi fondamentali della sceneggiatura. La preparazione, la spedizione, il ritorno e la tragedia. Si, perché alla fine King kong è una rappresentazione – spiccia magari, molto “americana” e anche un po’ qualunquista – del solito conflitto dell’uomo in lotta con sé stesso e, soprattutto, con i limiti – a volte mostruosi, comunque insormontabili – della Natura. Poi c’è il gorilla, epifenomeno al tempo stesso di una Natura benigna, che segue il suo infinito corso finché non venga turbata o maldestramente “guidata”. Allorché diviene maligna e devastante. Al di là di ogni interpretazione simbolica, non bisogna però dimenticare che King kong è un lavoro che nasce certo non per farci disquisire sulle finezze dell’etica umana. Proprio no. Ma per farci invece rimanere col culo ben attaccato alla poltrona. E – come dicevamo – seguendo le avventure del regista Carl Denham/Jack Black (e volendo anche alter ego jacksoniano) e della sua dinoccolata troupe sull’Isola del Teschio, King kong ci riesce. Nei panni dell’attricetta Ann Darrow, reclutata all’ultimo minuto da Denham per un film documentaristico da girare a Singapore, c’è la brava Naomi Watts, che si conferma attrice versatile (21 Grams vi dice nulla?) e dà al personaggio la giusta quota caricaturale. Il resto dell’intreccio è noto: a bordo della nave a vapore Venture salpa la troupe, Denham, Darrow e il drammaturgo Jack Driscoll, il bravo ed alienato Adrian Brody. Destinazione: la misteriosa ed enigmatica Isola del Teschio. Che esiste davvero. E che ospita un mondo incontaminato e magicamente rimasto all’era mesozoica. Dentro, però, c’è anche un gigantesco primate che vive isolato dal resto della fauna. E al quale la popolazione dell’Isola è devota. Sbarcata sul teschio, la troupe si imbatte nei mefistofelici autoctoni che rapiscono Ann e la offrono in sacrificio al gorilla. L’innamorato Driscoll e il resto della ciurma riusciranno, dopo inenarrabili peripezie, a liberarla. E pure a portarsi appresso, di ritorno a Nuova York, il gorilloide. Certo, qualche sequenza in meno ci sarebbe stata, ma alla fine fra due ore e 40 e tre ore cambia molto poco per un film che va giudicato intelligentemente, senza troppi falsi distinguo e con un anima sfacciatamente pop, oltre che tenendo ben presenti tre questioni. Primo: è un colossal girato da un maestro dei colossal per giunta remake di un colossal – il noto capolavoro tutto il stop-motion con l’indimenticabile Fay Wray stretta nel pugno di King kong in free climbing sull’Empire State building. Secondo: è certamente un prodotto da blockbuster ma non abdica, almeno nel complesso, ad una dignità narratologica e di abilità registica oltre che di fotografia difficile da scovare altrove. Terzo: bisogna entrare in sala armati di uno sconfinato amore per quelle incredibili sequenze – come la lotta fra l’enorme ma romantico umanoide ed i t-rex – che, da sole, valgono il prezzo del biglietto. Se siete di quelli che storcono il naso alle continue e fantastiche evoluzioni mostruose, restate a casa. E il peloso lasciatelo a noi.
Articolo del
12/01/2006 -
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