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Lady Vendetta è un esempio di come non si dovrebbe mai perdere l’inizio del film, quell’attimo che veramente fa la differenza. Nella sequenza iniziale è spesso, già condensato tutto il discorso che si vuole veicolare con il film. Se la pensate come me, sarete anche d’accordo allora che nella sequenza d’apertura di Lady Vendetta, Park Chan-wook con la sua vezzosità estrema della rappresentazione linguistica indaga direttamente nelle pieghe della violenza, scegliendo di mescolare i titoli di testa, i quali si scompongono e ricompongono in un caleidoscopico ricco di significati visivi, come il gesto in progress di un pittore alle prese con l’action painting. Attraverso un eleganza formale, prettamente orientale dal punto di vista visivo, Park Chan-wook scopre le carte, stuzzica lo spettatore, sollecitando la molteplicità’ dei significati possibili del visivo. Allora, come non riconoscere nella pellicola la presenza pervasiva, delle ossessioni che sempre hanno attraversato il cinema di Park? L’ossessione per la violenza, prima di tutto e, come corollario a questa, il leitmotiv della redenzione. E come, ancora, non riconoscere l’humus nel quale queste ossessioni sono immerse? La storia è infatti ancora una volta quella Parkiana, capace di costruire un’opera sincretica, che abbraccia registri e istanze fra loro antitetiche. La sua maestria sta nello slittare dal tono grottesco a quello iperviolento, dal cromatismo rosso del sangue della violenza vendicativa al bianco candido della neve, metafora della pace e di una rinata purezza (“più candore” dirà alla fine la piccola Jenny, rivolta alla madre e a noi spettatori). Lady Vendetta, fiore all’occhiello dell’autore coreano, è il terzo capitolo e conclusione commovente della violenta trilogia sulla vendetta, gli succedono diacronicamente Sympathy for Mr. Vengeance (2002), Old Boy (2004), e da non dimenticare Cut, episodio di Three… Extremis, raffinatissimo horror presentato a Venezia nel 2004. Park Chan-wook appartiene a pieno titolo a una cerchia ristrettissima di cineasti coreani, un autore che film dopo film, ha maturato un linguaggio sempre più raffinato che gli ha consentito di arrivare al cuore delle cose, imbastendo al contempo una poetica personalissima. Lady Vendetta – Sympathy for Lady Vengeance, presentato in concorso a Venezia 62, porta all’estremo le conseguenze di Sympathy for Mr. Vengeance e di Old Boy. La base del mélo sanguinolento è ancora la triplice struttura: rapimento, prigionia e vendetta. Da questo punto di partenza, Park costruisce un toccante ultimo apologo sul percorso della vendetta alla redenzione (è lo stesso Park che dice “non intendo esaltarla, ma cerco di trasformarla in redenzione”), ma ai temi dominanti dei primi due capitoli aggiunge un elemento nuovo. Comprensione per Lady Vendetta. Questo significa il titolo inglese del film; e la vendetta al femminile è il tema di questa storia assoluta di sangue e redenzione. La pellicola segna, infatti, anche un nuovo capitolo su questo tema, perché per la prima volta il cinema di Park fa leva direttamente su un personaggio femminile (interpretato dalla splendida Lee Young-ae). E’ quindi una ragazza a subire un’ingiustizia. La giovane Geom-ja dopo aver trascorso ingiustamente tredici anni in prigione, per essere stata accusata di avere ucciso un ragazzo, ha un solo scopo nella vita: vendicarsi. Un violentissimo mélo dove la pazienza (farà guadagnare alla protagonista il soprannome di “gentile Geumja”) e la violenza femminili riescono a trasformare il peccato in un rito di purificazione e redenzione. Antitesi tematica e iconografica messa in abisso anche dalla locandina di Lady vendetta, dove Lee Young-ae viene rappresentata come una santa in lacrime con tanto di areola. Il film rispetto ai precedenti si arricchisce anche della coralità dei personaggi (la rapinatrice, la prostituta, la spia e le altre colleghe del carcere di Lee Young-ae, ma soprattutto gli innumerevoli bambini stuprati e uccisi violentemente) dove la vendetta individuale della protagonista diventa giustizia collettiva. Non è un caso che Park fa concludere la sua riflessione sulla violenza da una donna, mettendo in scena i gravissimi effetti della perdita di umanità di chi è oscurato dalla sete della vendetta, oltrepassando lo stereotipo del dato biologico (le donne sono capace di questo e d’altro, vedere per credere!), dove tutto è il contrario di tutto, evitando, naturalmente, lo spettro dell’atmosfera larmoyante, facilmente dietro l’angolo quando si rappresentano certi temi dal punto di vista femminile, ma l‘autorialità non è acqua!
Articolo del
30/01/2006 -
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