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“Racconto servito con professionalità e tuttavia troppo lungo, due ore bastavano; schema Dieci piccoli indiani, ovvero i morti centellinati in serie alla Agatha Christie, a rischio di noia; protagonista moscio”. Così Todd McCarthy ha bocciato su Variety l’ultimo film di Steven Spielberg, Munich. Prendendoci, senza dubbio. Perché forse l’attesa che s’era creata attorno alla cronaca dell’operazione “Ira di Dio”, ordinata dall’allora premier israeliana Golda Meir per vendicare la sanguinosa strage delle Olimpiadi di Monaco, uno dei primi media event della storia televisiva, era eccessiva. Si pretendeva forse dal regista di “Schindler’s list” qualcosa in più, uno scatto che scardinasse il pur dignitosissimo impianto spionistico per andare oltre, verso una comprensione globale dell’evento e un’eleganza estetica che – a lunghi tratti – manca. E che – passo ancor più falso – chiude il film in un parallelo coito-strage a dir poco imbarazzante. La Storia, quella maiuscola, la sanno tutti – anche se la versione di “Vengeance”, il libro di Gorge Jonas cui si appoggia l’altalenante sceneggiatura del Pulitzer Roth, è solo una delle tante: un commando composto da otto palestinesi di Settembre nero penetra, alle cinque del mattino del 5 settembre 1972, nel villaggio olimpico della cittadina tedesca. I guerriglieri uccidono due atleti israeliani, ne sequestrano altri nove, intavolano trattative che pare la polizia tedesca sia disposta ad accettare. Una volta all’aeroporto, dove li attende un velivolo, scatta l'incauto attacco delle forze tedesche che dà una piega ancor più cupa alla tragedia. Gli israeliani vengono trucidati all'interno degli elicotteri dai terroristi, che a loro volta rimangono uccisi: solo tre la scampano. Proprio quei tre – oltre ai mandanti ed ai finanziatori dell'operazione – saranno gli obiettivi della squadra sotto copertura capitanata dal misterioso Avner (un Eric Bana insipido) e messa in piedi per vendicare il sangue israeliano. Il film racconta appunto il tour omicida di protagonista e soci. Ora: il film scorre per oltre due ore travolgendoti, senza dubbio. Ma rimanendone fuori, tentando di destrutturarlo, saltano alla luce diversi particolari che lasciano un po' di amaro in bocca. Ad esempio, la scelta di un film di spionaggio completo e fedele non è rispettata – e volutamente – perché a Spielberg interessa andare ad indagare nella lacerante realtà che il protagonista è costretto ad affrontare: uccidere per sopravvivere e vendicare. A quel punto, però, le vicende storiche si assottigliano ed uno spettatore che non sia ben ferrato rischia di pigliare gli sviluppi, come dice McCarthy, un po’ centellinati, a scatola chiusa, senza grande inquadramento storico. Tanto più che i primi 15 minuti, invece, lascerebbero presagire una pellicola attenta e minuziosa, sotto quell'aspetto. Peraltro il montaggio non aiuta granché, rimane a tratti ambiguo. Poi le ambientazioni, riprese un po’ troppo in campi medi, che affossano il mood del film, privandolo di campi lunghi che avrebbero lasciato vedere, per esempio, un’inaccettabile Roma girata a Malta. Oltre ad un cast che, eccezion fatta per Cassovitz (l’artificere) e Geoffrey Rush (l’ufficiale del Mossad), rimane plastilinico. Insomma: mi pare che ci siano state delle scelte che avrebbero dovuto essere più marcate. Certo, rimane una sensazione assolutamente disarmante, che vale l’intero Munich, e che probabilmente custodisce l’intento dell’ebreo Spielberg: quella del nauseabondo circolo vizioso che da sempre segna i rapporti fra élites palestinesi ed israeliane, impegnate in una partita a scacchi in cui, appena una pedina viene mangiata, ne risorge una ancora più spietata al suo posto. E in questo il regista di Cincinnati riesce, pur delegando all’ottica israeliana il compito di trascinare l’intreccio, a rimanersene ai margini, fornendo una narrazione quanto più possibile obiettiva. E rimangono anche almeno un paio di sequenze – quella in cui Avner dialoga col terrorista giordano, che lo crede tedesco, sul futuro della Palestina e quella, di poco successiva, in cui l’arabo viene ucciso dalla sua squadra – che scalciano la retorica anni luce dal film e ne fanno documento efficace di una situazione maledettamente incancrenita. Raccontando il Passato per spiegare un Presente che di quel Passato è filiazione diretta ed drammatica. Però resta anche il cruccio di un film che avrebbe potuto uscir fuori ancor più trascinante. E invece inciampa spesso in qualche buco – vedi la sciagurata sebbene comprensibile sequenza finale – che a Spielberg, forse, non tutti sono disposti a perdonare.
Articolo del
03/02/2006 -
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