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Stay – Nel labirinto della mente, è il quarto titolo della filmografia di Marc Forster, cineasta nato in Germania, cresciuto e adottato dalla Svizzera ma formato negli Stati Uniti (da circa sedici anni è attivo in America, dove vi è giunto per frequentare la NYU Film School). Dalla sua penultima opera, Neverland, narrazione sulla capacità d’immaginazione – quella di J.M. Barrie, il creatore di Peter Pan - Forster si sposta verso i labirinti della mente, la visionarietà rimane, comunque, al centro della sua poetica. Lo schema della percezione della trasfigurazione sogno/realtà come attraversamento dei luoghi sconosciuti del soggetto non è certo cosa inedita; un oggetto non proprio estraneo al cinema; un vero e proprio modus operandi, anche con interessanti variazioni sul tema, negli schermi degli ultimi anni. La contaminazione tra realtà e finzione, tra immaginazione e verità e, più in generale la trasformazione costante del reale in un universo quasi metafisico, è il filo rosso che lega tra loro tutti questi film. De/costruzioni postmoderne, che sollecitano al massimo la tensione degli spettatori a tal punto da far loro sentire il film oltre che vederlo. L’ultimo lavoro di Forster sembra avere, dunque, punti in comune e numerose analogie con alcune pellicole. Senza andare cronologicamente indietro, tra le più interessanti contiamo Memento (2000), dell’inglese Christofer Nolan, e Naboeer (2005), del norvegese Pal Sleutane, quest’ultima presentata a Venezia 62° ma non ancora distribuita in Italia. Già dalle prime immagini Stay, si pone al centro di questa dialettica verità/finzione, introducendo lo spettatore in uno sguardo segnato dal continuo adrenalinico movimento che demarca il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso e informa così l’atmosfera dell’intero film. Sam Foster/Ewan McGregor, psichiatra newyorkese, cerca d’impedire il suicidio di un suo paziente, il giovane studente Henry Lethem/Ryan Gosling, annunciato per la vigilia del suo 21° compleanno. Henry è ossessionato dalla storia di Tristan Reveau, un promettente pittore, il quale aveva annunciato - anche lui - il suo suicidio sul ponte di Brooklyn, come se fosse stata la più grande opera d’arte. L’artista maudit, che aveva detto a proposito del brutto nell’arte: “Il brutto nell’arte è tragicamente più bello perché documenta il fallimento umano” (qui entra in gioco come sottotesto del linguaggio finzione/realtà di Stay, anche il rapporto tra arte e vita). Lo psichiatra viene sempre più forsennatamente catapultato nella vita di Henry; presto la razionalità di Sam comincia a vacillare ed egli non distinguerà più ciò che è reale e ciò che accade nella sua fantasia. Chi è Henry? È il quesito che si pone Sam e come lui anche lo spettatore, quando la realtà viene sempre più contaminata dalla fantasia, come accade di consueto in un buon film hollywoodiano. Allo spettatore più attento non sfuggiranno alcuni oggetti chiave che hanno un significato rivelatore. Ci si renderà conto che ciò che si andrà a vedere non ha a che fare con la realtà del mondo raccontato, ma ciò che accade appartiene al mondo dei sogni (vedasi in tal senso l’inquadratura iniziale che apre il film, quella dell’incidente sul ponte di Brooklyn e poi quella immediatamente successiva in cui si vede Sam appena svegliato nella sua camera da letto). È evidente che il contenuto del film è la rappresentazione di un sogno, ma poi sul piano dell’estetica l’autore rivela una parte più psicoanalitica. La cifra del film ha a che fare con il linguaggio dell’inconscio; Forster mette in immagini, poeticamente e narrativamente, quei processi psichici quali l’identificazione, l’immaginario, il doppio, ecc. La settima arte ha sempre esibito più delle altre arti, proprio per lo statuto dell’immagine, la sua vicinanza con il mondo dell’inconscio e, in particolare, con il lavoro onirico. Lo stesso Forster, in un intervista, ci invita a riflettere sulla visione cinematografica come duplicatore dei meccanismi di costruzione dell’identità: “Sono stato sempre ispirato dai sogni e attratto dalle visioni alternative della realtà”; e ancora: “Nel film (…) m’interessano (…) i meccanismi intimi della percezione e dell’identità. Penso che questi temi siano di particolare interesse nel nostro mondo attuale, in cui siamo circondati dai media e da tante diverse visioni della ‘realtà’ e in cui la percezione è diventata una parte importante di ciò che siamo e di ciò di cui siamo consapevoli o meno. Il pregio migliore dell’opera è quello di far giocare magistralmente lo spettatore/sognatore con il linguaggio dell’inconscio, attraverso rimandi e slittamenti semantici, come succede nei sogni durante il lavoro onirico della condensazione/metafora e dello spostamento/metonimie. Come nel sogno, in Stay, la mancanza di azioni spazio-temporali, legate dal meccanismo causa-effetto, permette al film passaggi non logici e arbitrari. Simboli ricorrenti che vanno dalle porte verdi alle scale a chiocciola, al ponte di Brooklyn, figura nodale nel film, la storia inizia e si conclude con questa immagine, elemento che fa da collante tra la realtà e i sogni di Sam; e infine le inquadrature che vengono ripetute, creando così un effetto straniante e alterato di ciò che vediamo, ma soprattutto sentiamo. Complice il lavoro sapiente del montatore Matt Chessé e del direttore della fotografia Roberto Schaefer, già attivi e fidi collaboratori della precedente filmografia di Forster, che insieme impastano colore e illuminazione, atmosfere e décor, ispirati ai film di genere degli anni ’70. Peccato che tutto ciò rimanga in superficie; uno sterile gioco dimostrativo che non riesce a far maturare contemporaneamente una storia da raccontare; un puro e semplice divertissement e/o virtuosismo visivo, che rimane circoscritto nel periplo dell’esercizio di stile, solo questo…
Articolo del
10/03/2006 -
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