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La perdita del lavoro, il tema su cui si articola la narrazione del Cacciatore di teste è un argomento che sta facendo nuovamente capolino al cinema con grande irruenza negli ultimi tempi. Infatti dopo la stagione degli anni ’70 con la sua centralità del sociale, questo soggetto è stato progressivamente accantonato. Bisognerà aspettare tempi recenti perché “il cinema sul lavoro”, ottenga ancora dei risultati espressivi interessanti. Mi piace lavorare-Mobbing (2004) della Comencini è stato forse l’antesignano nel trattare nuovamente questo problema. Ricordiamo, inoltre nel territorio del cinema italiano anche il film di Giorgio Casotti Volevo solo dormirle addosso (2004). Oppure rimanendo sempre in Europa A tempo pieno – L’emploi du temps (2001) del francese Laurent Cantet; il film ispirato da un fatto di cronaca, racconta di Vincent, consulente in una azienda che viene improvvisamente licenziato, non avendo il coraggio di rivelare l’accaduto né alla moglie né agli amici vive nella menzogna e decide di inventarsi una nuova attività professionale fino al tragico epilogo. La classe operaia non è più, quindi, la protagonista di queste storie di disoccupati, come lo era nel passato, ma sono i “quadri”, i dirigenti rampanti di questo pianeta. L’ultima pellicola di Gavras è un thriller fanta-sociale, come racconta lo stesso autore, una storia che ci preannuncia una paradossale e apocalittica realtà, e come al solito il cinema anticipa quello che può accaderci in un futuro non molto lontano. L’autore mette in immagine la storia di un ingegnere chimico di quarant’anni (Bruno Davert/José Garcia), che dopo quindici anni di specializzazione in un’industria cartaria, si ritrova licenziato per motivi di esubero del personale e di una delocalizzazione aziendale. All’inizio sembra tutto facile: Bruno non si rassegna e cerca di rimettersi sul mercato del lavoro. Ma il tempo passa, e lui si ritrova ancora disoccupato, con una famiglia sulle spalle, e un benessere costruito con duro lavoro che sta man mano svanendo... Bruno Davert come Marco Pressi, il protagonista del film di Cappuccio, è un tagliatore di teste, uno che fa fuori, con un efficace stratagemma (che non vi raccontiamo, per non perdere la sorpresa offerta dal film) i potenziali concorrenti. Ma se Marco Pressi elimina, vale a dire fa licenziare i suoi colleghi e amici al fine di ottenere una promozione nell’azienda dove lavora, Bruno Davert li elimina nel vero senso della parola, ovvero uccide uno a uno i probabili rivali, disoccupati anche loro dell’industria chimica, cioè tutti coloro che potrebbero rappresentare un pericolo per il suo stesso reinserimento. Tratto da un giallo di Westlake, il Cacciatore di teste è un film prodotto dai fratelli Luc & Jean-Pierre Dardenne, ma della loro poetica non rimane traccia, tranne che la presenza dei loro nomi nei titoli di testa e di coda. La pellicola prende a tratti le pieghe di una commedia nera, innervata di sarcasmo, l’occhio della macchina da presa imparziale e quasi metafisico, non giudica il personaggio, vittima lui stesso di un sistema. Gavras pone delle profonde questioni sul mondo del lavoro - qual è il punto di arrivo di questo grosso problema?- che sembrano non avere via d’uscita adottando un finale spiazzante. Tutto questo è rappresentato da Gavras con una regia che gioca costantemente con le aspettative dello spettatore attraverso la struttura della sceneggiatura. L’incipit, un lungo flashback in cui il protagonista confessa i suoi crimini, sembra annunciare una fine scontata, che invece è ribaltata nel finale iperbolico. Ma tutta la narrazione è caratterizzata da questo ritmo contraddittorio, una scelta estetica calcolata per trasmettere la doppiezza e gli inganni di Bruno, un formalismo che rende veramente intrigante il film. Morale della fabula: è proprio vero che il fine giustifica i mezzi!
Articolo del
13/03/2006 -
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