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Finalmente è tornato al suo pubblico il Verdone anni ’80-primi ‘90. Almeno per lunghe porzioni de Il Mio Miglior Nemico. Quel Carlo Verdone che, prima delle gag, c’era il film, la storia, l’autonomia di una sceneggiatura sulla quale la spietata abilità di flâneur dei tic post-moderni del pacioccoso comico romano si innestava con abilità e tempismo da sociologo più che da cineasta. Finendo col fare costume. Cosa che sta facendo in queste settimane, riuscendo nel solito miracolo di mettere d’accordo monelli e genitori (dei monelli). Ma solo dopo, appunto, aver montato un’impalcatura narrativa dignitosa e compiuta – o almeno, quasi compiuta. Quindi: non il Gallo Cedrone che va girando per la città a suon di cafonate senza senso. Piuttosto il malincomico Bernardo di Maledetto il Giorno Che T’ho Incontrato o il Carlo di Io e Mia Sorella. Insomma: Il Mio Miglior Nemico è commedia all’italiana a pieno titolo, non un qualsiasi film comico o di comici. E riacchiappa Verdone da un decennio che, a parte Viaggi di Nozze, non è che avesse aggiunto chissà quanto di fresco, alla sua filmografia. Anche perché la nuova metà ispiratrice di Verdone, quel Silvio Muccino senza dubbio ancora molto legnoso nella recitazione, ce la mette tutta. E poi – deo gratias! – ha finalmente perso, a 28 anni, la zeppola che ne aveva fatto il giovanotto sputacchiatore di Come Te Nessuno Mai. Anche se – a quanto ha ripetutamente dichiarato la neocoppia – il merito del Muccinino sembra andare proprio verso certe aggiunte di credibilità linguistica e scenica che in effetti si sentono. Bravo, dunque. La storia la sanno pure i sassi: Achille De Bonis, dirigente di una catena alberghiera tale solo in virtù del proficuo matrimonio, accusa la madre di Orfeo Rinalduzzi, cameriera, di un furto ai danni di un cliente e la licenzia in tronco. Orfeo – barista 24enne senza padre, da sempre attaccato ad una madre esaurita interpretata dalla interessante Sara Bertelà, e soprattutto senza prospettive - decide di vendicarsi, portando alla luce la storia che Achille intrattiene con la prosperosa moglie del cognato. Nel frattempo, però, s’è innamorato di Cecilia, la delicata Ana Caterina Morariu, figlia di Achille (senza sapere chi fosse il padre), la quale non prende bene lo sfascio che si crea dopo il pubblico sputtanamento perpetrato da Orfeo – imperdibile la sequenza della festa in giardino. E scappa. Nella seconda parte, i due, in un precipitoso road-movie che fa molto In viaggio con papà, si lanciano alla ricerca di Cecilia. Sono tre i punti forti del film: la freschezza di certe gag che riusciranno, come sempre accade con Verdone, a mettere insieme quell’Italia nazionalpopolare che non si vergogna di essere tale e che tira in sala, per la cravatta, anche i vetusti e barbosi connazionali della cultura nostrana (“Che faccio? Chiamo il 119? – “Ma no! Quello è il numero delle ricariche!”). Poi, la varietà delle ambientazioni: il film vira in almeno tre sezioni (Normalità e Disastro romano - Road-movie Norditaliano – Chiusura fra Istanbul e Ginevra) evitando di ricadere su se stesso, sebbene con qualche nesso non proprio giustificatissimo. Infine, c’è una patina di cult, di tensione eroicomica, di cura che potrebbe farne un effettivo rilancio (a 57 anni) per Verdone. E il definitivo trampolino per l’ex-fancazzista Muccino che sono davvero curioso di capire e vedere, adesso, cosa riuscirà ad inventarsi – alla luce, meglio come sceneggiatore che come attore, dove non riesce che a recitare sé stesso. Intanto, i due – pur, alla fine, con le forzature commercial-stereotipizzanti che un film italiano che deve far cassa è costretto a subire nel 2006 – riescono, come i maestri di una volta, che facevano ridere e piangere assieme, a raccontarci l’Italia, la famiglia italiana, la famiglia cornificata, le fobie, gli affanni e gli isterismi neotecnologici con una massiccia dose di energia e patetismo, risate e disincanti.
Articolo del
22/03/2006 -
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