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Gli ultimi giorni di Kurt Cobain, ultima grande icona “maledetta” del rock. Una morte che si inscrive nel firmamento plumbeo di tutti i grandi poets maudits della musica: Brian Jones dei Rolling Stones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, fino al giovanissimo Ian Curtis dei Joy Division. Gus Van Sant immortala i grigi giorni che precedono il suicidio del leader dei Nirvana con il consueto sguardo lucido e distaccato. Il film si apre con il protagonista che arranca nel bosco vicino a casa. Qui inizia il “pedinamento” registico, come si era già visto in Elephant, con la cinepresa che insegue i personaggi riprendendoli soprattutto di spalle, in un cammino claustrofobico e senza meta. Kurt Cobain (ribattezzato Blake, forse un richiamo al visionario poeta e pittore inglese) vaga senza posa tra il giardino e la casa, si trascina da una stanza all’altra, mormora frasi sconnesse con lo sguardo perso in un vuoto che risucchia ogni residua energia. Michael Pitt, smessi i panni da insipido sempliciotto in “The Dreamers”, costruisce un personaggio credibilissimo, grazie a una forte somiglianza fisica e a espedienti latori di immediata riconoscibilità presso il pubblico, come quando indossa il vestito nero da donna con cui Cobain appariva anche durante i concerti, o gli occhiali dalla foggia anni Sessanta, che imperversano in numerose fotografie. Il resto lo suggeriscono la trasandata chioma bionda, la barba incolta, le movenze incerte, e soprattutto i rari momenti in cui Blake/Kurt prende in mano la chitarra e improvvisa accordi strazianti. In un film che evita ostinatamente il coinvolgimento dello spettatore, scegliendo un taglio cronachistico e impietoso, i pochi istanti in cui Blake suona costituiscono gli unici passaggi dotati di carica emozionale, in grado di comunicare il disagio, la disperazione struggente di un ragazzo odiava se stesso ed era giunto a detestare il mondo. Nessuna musica dei Nirvana echeggia nel film, forse per evitare il facile plauso di chi ha amato visceralmente gli album del gruppo. Ma bastano le melodie composte dallo stesso Pitt, inaspettatamente evocative del modo di cantare di Cobain, con la voce sofferta che sembra sempre sul punto di spezzarsi, vibrante di rabbia e disillusione, e bastano i suoni distorti, sporchi, ossessivi, della chitarra e della batteria, a trasmettere l’immagine che tutti ricordano. Suoni che lacerano il silenzio come rasoiate, riportando alla mente una musica cupa, dall’impatto corrosivo, e mettendo a nudo frammenti di una personalità fragile e talentuosa che ha rivoluzionato la musica: un giovane uomo di cui si è conosciuto il lato oscuro, la distruttività, ma anche la dirompente e caustica vena creativa. Squarci toccanti che affondano in un quadro piatto e glaciale, in cui il regista abbandona qualsiasi pretesa di attuare uno scavo psicologico. Il film resta al livello di documentario, usa molto più l’occhio del cuore, non indulge in patetismi, non divinizza il fenomeno planetario degli anni novanta, ma lo scarnifica e lo riduce a una sequenza di ore insensate e squallide. Van Sant non azzarda spiegazioni, non intesse un tributo alla memoria, non si impadronisce dell’abusato cliché romantico-decadente della morte prematura. Seziona e registra ciò che precede la catastrofe. Che arriva senza enfasi: un corpo sdraiato nel capanno degli attrezzi, visto attraverso un vetro. Il racconto asettico e crudo si serve di silenzi, reiterazioni di scene e scarti cronologici per dipingere la tormentata solitudine del protagonista e la sua ricerca della morte. Una morte che è solo lo scontato gradino in più in un sentiero segnato: talmente presagita e invocata da non avere più il senso dell’Evento. Spogliata di mistero, perché in realtà la tragedia si è già consumata mesi, forse anni prima Resta solo una fine da cronaca quotidiana, uguale a mille altre, logora e desolata, come se il traguardo dell’annullamento fosse giunto già da molto tempo a portarsi via un ragazzo di Seattle.
Articolo del
27/03/2006 -
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