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Il Caimano è Berlusconi. Senza dubbio. Ma è anche, quasi per sineddoche, la mediocritas e lo sfascio in cui l’antropomorfico rettile sudamericano ha scaraventato questa nostra, inetta ed inerme Italietta. Attenzione, però. Nanni Moretti l’autarchico – in questo stiracchiato panorama cinematografico italiota lo è fino al midollo, per fortuna – ha fatto un film con Berlusconi. Di certo non solo su Berlusconi. Convinto – come dice egli stesso nel film – che “Berlusconi ha vinto comunque”. Perché – ha ribadito fuori dal grande schermo – “dovremo vedercela per molto tempo con le disastrose conseguenze del suo pluriennale dominio”. E quindi, più che una secchiata d’acqua fresca per svegliarlo da un ottundimento culturale malignamente inculcato, addosso allo spettatore Moretti riversa una badilata di cerotti. Come a dire: il peggio è passato, ma le cicatrici faranno male per un bel po’. Ne esce, dal Caimano, la radiografia di un’Italia a pezzi. Interpretata dallo scalcinato produttore Bruno Bonomo, che è al contempo simbolo dell’illusione ed emblema dell’incertezza contemporanea. Aggrappato com’è al suo brillante passato trash – e l’incipit del film è esilarante, in questo senso - e sognatore illuso rispetto alle prospettive future. Che, in sostanza, non esistono. Silvio Orlando c’ha messo l’anima, nel protagonista stracciato da una Vita che gli casca addosso. Ed è andato decisamente sopra il suo standard – che è sempre buono ma mai eccellente. Dicevo: è un film con Berlusconi. Anzi, con tanti Berlusconi. Tanti quanti sono i possibili interpreti (immaginari e reali) della sceneggiatura che la giovane regista Teresa (Jasmine Trinca, credibile nella testardaggine un po’ melensa del suo personaggio) propone a Bonomo. E che il produttore, indebitato fino al collo, decide comunque di mettere in piedi. Lo stenografato Elio De Capitani – figurato in sogno da Bonomo, mentre legge il copione -, il logorroico ciarlatore Michele Placido – che interpreta l’attorone di grido che si ritira causando il definitivo collasso del film -, l’inquietante – nel sovversivo finale – barbuto Nanni Moretti, che – nella parte di un attore non ben identificato - aveva precedentemente rifiutato l’ingaggio. Ma è anche una riflessione su cosa significhi amare, oggi: amare una donna e vedere – senza apparenti ragioni, come un ramo rinsecchito – la propria storia morire. Amare i propri figli – e i due bambini di Bonomo sono un gli unici, veri interlocutori del padre. Amare una persona dello stesso sesso, come fa Teresa, senza che questo la faccia sentire diversa. Amare alla follia il Cinema, tanto da aggrapparcisi con le unghie e da dormirci letteralmente in mezzo – succede nel teatro di posa di Bonomo, sua ultima proprietà artistica, destinata ormai ad ospitare grigie televendite. Insomma uno scatto spietato ed onesto delle riformulazioni valoriali della società. Ma c’è anche – dicevo sopra – l’Italietta nonsense come è venuta fuori da vent’anni di ambiguità, impoverimenti, tangenti e sporcizia morale: un’Italia ai margini, scolorita, disincantata. Che però mantiene in serbo – e Teresa ne è l’emblema, tanto che nella sequenza finale, anche per una sola scena, riesce a gridare il fatidico e agognato “Azione!” – la possibilità di un colpo di coda. Ecco perché è un film aurorale, più che pessimista. Cioè segna la fine di un’epoca, quella del Berlusconesimo. Ma custodisce anche l’embrione di una nuova strada. Che tuttavia, come tutte le strade nuove, è fragile e delicata. E rischia di essere incrinata dalle forzature oscure che Moretti butta lì alla fine del film, quando il medesimo Moretti-Berlusconi, condannato a sette anni di carcere, lascia il Tribunale aizzando la folla e innescando una serie di reazioni quantomeno inquietanti contro i giudici – cioè contro lo Stato – che escono dal Palazzo di Giustizia. C’è una molotov scagliata contro le toghe difese dai carabinieri, in particolare, che gela il sangue. E’ qui che il cineasta si fa vate, che riserva per la chiusura la catarsi e al contempo il monito, indicando una strada sicura ma complessa: lavorare per rimettere in sesto questa malandata Italia. Ha detto Walter Veltroni che “Il Caimano” gli ha ricordato, seppure cinematograficamente anni luce, il mood di cinismo, disincanto e disorientamento de “Il Cacciatore”, di Michael Cimino. Non poteva trovare riferimento più calzante, visto che sono due film in cui è la Società – coi suoi cancri e i suoi stress – ad essere la vera protagonista. Ed infatti, come a giocare alla roulette russa a Saigon non c’è solo Christopher Walken, ma una generazione intera di americani, così non c’è solo la troupe di Teresa a veder sfilare la macchina blu del Berlusconi-Caimano, ma un’intera nazione ormai ridotta a brandelli dalle fauci dell’interesse.
Articolo del
30/03/2006 -
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