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Shelton Jackson Lee, per gli amici semplicemente Spike, più che un regista è ormai un professore. Di cinema. “Inside Man”, l’ultimo nervosissimo ed intricato lavoro calibrato attorno al canone della “bank robbery”, è infatti materiale per epoche passate, del grande schermo, più che per l’attuale jungla blockbusterizzata. Gli ingredienti per una gustosa lezione di cinema ci sono tutti: la regia sincopata, spezzata e però niente affatto discontinua di Lee. Certe sequenze lasciano davvero con la bava che scola nel sacchetto del pop-corn. La sceneggiatura, estremo esempio di abile lavoro sul modello, dell’esordiente Russell Gerwitz: incasinata grazie a continui flash-back e flash-forward (ambientati a rapina già conclusa), trabocchetti, agnizioni e trovate degne di un fumetto poliziesco, ma organizzata con la maestria di un thriller mozzafiato – nonostante si parli di banche, furti, ostaggi ed uno prima di entrare potrebbe pensare a quanti ne ha visti, di film con trame del genere. Poi la fotografia, metallica e straniante, squillante e tagliente al punto giusto, di Matthew Libatique. Infine gli interpreti: il genio incompreso architetto della rapina, Clive Owen. Il popolano ma duro-a-morire, detective Denzel Washington con una questione di presunta corruzione da sanare, che in versione boccia sembra un altro. Ancora: una sempre stuzzicante Jodie Foster, nel ruolo di una potente avvocatessa di ferro. Incaricata dal finanziere Arthur Case – un viscido ed eccellente Christopher Plummer -, proprietario della banca rapinata, di recuperare certi documenti importanti – oggetto fondamentale nella fenomenologia della pellicola. Ma al di là di tutto, il film è sostenuto da due elementi vitali. Uno di ordine tecnico, l’altro tematico. Il primo, magari cretino ma illuminante, sta nella trovata principale della sceneggiatura: lo scambio di parti, anzi, la confusione fra rapinatori ed ostaggi. La gang che penetra nella banca newyorkese, infatti, anzitutto non si comporta come una comune banda di rapinatori: non uccide, non si interessa del danaro, pretende che i cinquanta ostaggi indossino delle curiose divise, tutte uguali. Infine, temporeggia pur avanzando le solite, immancabili richieste al negoziatore Washington (autobus-aereo-soldi). Cosa vogliono? Sembra che vogliano quasi innescare un sottilissimo e spietato rompicapo a distanza con la polizia. Tanto – loro – usciranno dalla porta principale della banca. Comunque vada a finire. Qui l’elemento straniante: rapinatori e rapiti, al momento dell’immancabile blitz della polizia (vedete? È tutto immancabile, come genere detta, eppure tutto riorchestrato secondo una chiave differente) si lanciano fuori dalle porte, tutti vestiti allo stesso modo, con le famigerate tute grigie a blindare qualsiasi possibilità di accusa. A salvare, confondendoli nella massa, i responsabili. Sulla base di una situazione di stallo che decine di onirici interrogatori non riescono a sanare – i detective non riescono a capire, più che il come, il perché di una gang di rapinatori che non tocca un centesimo del caveau finendo col volatilizzarsi nel nulla – il detective Frazier finirà con l’andare al di là del puro quiz della rapina: il suo sguardo su quanto scoprirà della finanza statunitense (incarnata dal finanziere Case) è lo sguardo, sempre corrosivo, di Spike Lee, il cineasta vate. E qui - secondo elemento di cui sopra -, oggettivamente, “Inside Man” fa il salto perché è come se l’immersione dei rapinatori nel caveau della banca divenisse un’immersione nelle fondamenta storiche di un mondo del denaro statunitense che, quanto a scheletri nell’armadio, non fa invidia a nessuno. E che sa bene che “se scorre il sangue è il momento di comprare”. Da palombaro della società che usa il cinema quale strumento privilegiato e dirompente per schiacciare i bubboni del conformismo e della superficialità, Spike Lee ci porta – tenendoci incollati alla poltrona come nella più riuscita delle sceneggiature ad orologeria – a rimestare in certe piaghe socio-storiche che mai crederemmo di poter incontrare, in un “bank robbery movie”. Che, infatti, pur muovendo da un canone simile spicca il volo per divenire il puntuale, affilato documento di denuncia firmato da un regista che ormai con la macchina da presa sa “dire” quel che vuole. E fa sempre la cosa giusta.
Articolo del
14/04/2006 -
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