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In un profondo, affascinante trip onirico Marco Bellocchio rivendica ancora una volta la sua testarda posizione di guastafeste del cinema italiota. “Il regista di matrimoni” è un film bellissimo, ingiustificato e vertiginoso, dentro al quale è ovvio perdersi e dentro al quale è inutile – anzi dannoso – cercare nessi, di qualsiasi tipo. Siano narrativi o logici. C’è solo il linguaggio – nervoso, irrazionale, surrealista – a tenere le fila. Una cavalcata fra Buñuel e “I promessi sposi”, fra Kafka e Tomasi di Lampedusa, fra Godard e Mario Camerini. In un vortice allucinato, fitto fitto di rimandi, citazioni e trapianti che, però, si sviluppa in una sintesi virtuosa, tirando fuori qualcosa a metà strada fra un racconto di Calvino e - non c'è altro referente – un film di Bellocchio. Tutto ciò (anche) grazie all’eccellente montaggio, sul quale le diverse componenti del film, fra le quali anche inquadrature low-resolution bianco/nero (che fanno da camera-spia rispetto al protagonista: chi lo spia? Chi lo scruta?), si innestano in un continuum di strappi e violenze. Ad ogni modo, una storia – un po’ fantasmagorica - c’è, sotto. Anche se sembra una sorta di riedizione dei Promessi sposi con l’insigne regista Franco Elica (Sergio Castellitto) nei panni dell’Innominato che, invece di liberare Lucia, tenta di tenersela e sedurla. Scappato da Roma – dove per lui, fra crisi creativa e magagne kafkiano-giudiziarie, tira una brutta aria – e sbarcato in una Sicilia barocca, inquietante e però universale, Elica si imbatte in un registucolo locale che campa girando filmini matrimoniali. Costui, incondolo per caso, gli chiede qualche dritta. Elica accetta. E addirittura, col trascorrere dei giorni e del soggiorno a Cefalù, viene ingaggiato dal polveroso principe di Gravina (Sami Frey), il quale pretende che Elica filmi il matrimonio della figlia, la principessa triste Bona (Donatella Finocchiaro). Elica accetta ma, appurato che lo sposalizio è organizzato per salvare le scassate finanze dei Gravina, intraprende una missione controcorrente e a suo modo donchisciottesca: salvare Bona dalla trappola. Portare Lucia sulla sua strada. Farne una bad girl, insomma. Aprirle gli occhi. Nel corso del soggiorno, gliene succedono di tutti i colori. Anche di incontrare il suo doppio, un regista del quale aveva appreso la presunta morte giorni prima – tale Smamma, e attenzione ai cognomi nell’universo-Bellocchio – che si era dato per morto pur di veder vincere un suo film al David. Convinto che “in Italia, nel mondo, dappertutto sono i morti che comandano”. Attraverso le ripetute conversazioni con Smamma, Elica esorcizza sé stesso, capisce cosa non vuole essere, quasi si purifica. Ma, davvero, ridurre a sintesi un film del genere è operazione insensata. Perché nel “Regista di matrimoni” ogni sequenza è fondamentale: non c’è uno snodo centrale, l’equilibrio è pericolante. Dimenticando una sequenza, cede l’intera struttura. Il mood è mefistofelico e carnale. Sergio Castellitto – di suo già parecchio allucinato – veste alla perfezione i panni di un ovattato ma geniale antieroe della cinematografia odierna. Un po’ burattino, un po’ burattinaio, guida lo spettatore in un metaviaggio alternato fra realtà e sogno (personale), i cui snodi sono il cinema, l’amore, la realizzazione dell’essere umano. Il finale, beffardo e, al solito, galleggiante, lascia almeno tre o quattro possibilità. La regia è assolutamente pesante: si sente l’obiettivo invadente e sfocato di un artista, Bellocchio, al quale tanti giovani che stanno crescendo oggi – mi riferisco ad esempio a Louis Nero col suo “Hans” – devono davvero molto. Ecco: è un po’ come quando ci si sveglia di notte, magari intorno alle tre, e con gli occhi ancora impastati, la vista sfocata e il cervello sottosopra. Si scende dal letto. E si gira per casa, sapendo dove si vuole arrivare, ma facendolo con cambi di rotta, tentennamenti e dondolii continui. Un film liquido, “Il regista di matrimoni”. Ma che, a ben vedere, parla anche di una certa Italia, di un certo mondo artistico, di un certo smarrimento post-moderno comune all’uomo-liquido dei nostri tempi.
Articolo del
27/04/2006 -
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