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Pellicole come Il Grande Nord, documentario ibrido sulla natura, sono l’ennesima conferma di un trend commerciale che s’inserisce a pieno titolo nella nuova onda del docu-fiction ambientalista, corrente che mescola la realtà del genere documentario con la ricostruzione mimetica del reale di una fiction. L’intenzione di partenza di Nicolas Vanier è quella di guidarci alla scoperta di un mondo, quello incontaminato – ancora per poco – delle Montagne Rocciose dello Yukon, nel Canada del Nord, movendosi sulla falsariga dei suoi antesignani basterebbe pensare a La marcia dei Pinguini e a Profondo blu - solo per citarne qualcuno in ordine diacronico - prodotti didattici paratelevisivi che sembrano uscire da un dei programmi di Quark del piccolo schermo. Il rischio è che queste forme cinematografiche, in bilico tra il reportage e/o l’inchiesta giornalistica e il reality-show, finiscono per mettere in scena convenzioni narrative da show business. Il progetto de Il grande Nord è stato messo in piedi da Vanier, regista, sceneggiatore, scrittore e soprattutto viaggiatore, famoso in tutto il mondo da oltre vent’anni per le sue imprese temerarie nei paesi del Nord. Proprio durante una delle sue traversate nel grande Nord canadese, con i cani da slitta (raccontata in un libro e in un documentario dal titolo Odissea bianca) che conosce Norman Winther, protagonista della pellicola. Il regista riprende meticolosamente il cacciatore Winther, uno degli ultimi in attività sulle montagne rocciose, insieme alla sua compagna indiana Nebaska e ai sette cani da slitta husky nella loro vita quotidiana. Entrambi vivono da anni tra queste incontaminate montagne canadesi, lontano dalle esigenze della società moderna, in una casa costruita da loro con soli tronchi, mangiando carne di cervo o pesci pescati nei fiumi e nei laghi gelati e barattando le pellicce degli animali cacciati in cambio di farina, candele, fiammiferi, quel poco di cui hanno bisogno. La loro vita si muove in stretta simbiosi con i cicli della natura: è ancora regolata dal passaggio delle stagioni e dal mutare delle temperature che impongono ritmi ben precisi e continui cambiamenti. “Prendere senza impoverire” questo è lo slogan di un cacciatore come Winther, che quando uccide un animale non gli chiede perdono, ma gli spiega perché lo fa e cosa farà della sua pelle e della sua carne. Cacciare per lui è una necessità ma è anche qualcos’altro. Il problema strutturale del grande nord è che il territorio si sta impoverendo a causa della presenza delle compagnie del legno che penetrano questo mondo e se ne appropriano sempre di più. Così gli animali sono costretti a fuggire, e i cacciatori seguono altrove le loro orme. Gli immensi territori del Nord sembrano destinati a sparire e a diventare dei deserti. In tale contesto l’uomo/cacciatore come Winther è indispensabile per mantenere l’equilibrio naturale dell’ecosistema: “i cacciatori non nuocciono agli animali selvaggi, anzi li rivitalizzano”. Vanier si sofferma con minuzia nella quotidianità, cercando di cogliere la realtà così come si presenta davanti ai suoi occhi: la cattura di castori e di martore, la caccia al cervo, la costruzione della casa, la ricerca di nuovi territori abitati da animali, i pericolosi incontri con gli orsi o con i lupi. Ma quello che immediatamente colpisce del film, al di là dell’incipit dei titoli di testa che annunciano la storia di Norman Winther nella parte di se stesso, è la forte presenza di fiction. La trasposizione in immagini del mondo e della vita di Winther è messa in scena drammaturgicamente romanzata, attraverso i filtri della finzione (citiamo in primis la scena clou che vede Winther in gravi difficoltà, immerso nelle acque di un lago gelato, la cui superficie ghiacciata ha improvvisamente ceduto, salvato dai cani che tirano la sua slitta). Prestando attenzione anche verso i titoli di coda si legge il nome dell’addestratore dell’orso, dell’addestratore dei lupi, e cosi via. Vanier inserisce sugli elementi del reale alcune forzate spettacolarizzazioni e una buona dose di situazioni palesemente ricostruite. Sapevamo da tempi non sospetti che il genere documentario non fosse esclusivamente mezzo di inchiesta, ma ci premeva evidenziare la vera natura di ciò che si vede. È l’estetica, dunque, punto debole de Il grande Nord, a insospettire con quell’aria un po’ falsa e costruita in cui si sente la pretesa di Vanier di liricizzare “l’impressione di realtà” che gli si presenta di fronte, finendo per rivelare un’operazione dichiaratamente superficiale, e non la storia, che invece fa da motore a tutto il film. Sarà anche dipeso dal fatto che dalla pellicola emerge soprattutto la mancanza di un côté puramente fenomenologico dei paesaggi e delle distese di ghiaccio, dei canyon e delle montagne, dei tramonti e delle aurore boreali, che potevano essere un inno alla natura, un elemento fondamentale del racconto e la vera protagonista del film (forse non è un caso che il Il grande Nord ha vinto il Premio del pubblico alla scorsa edizione del Trento Film Festival) e non una mera riproduzione di un mondo puro e selvaggio come va di gran moda oggi.
Articolo del
12/05/2006 -
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