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L’eterno e infinito antagonismo tra cinema e televisione ritorna prepotentemente in American Dreamz, un’altra roboante critica della Settima arte all’universo del piccolo schermo. La pellicola, metafora parossistica delle tristissime trasmissioni televisive, scritta, prodotta e diretta da Paul Weitz (senza il fratello Chris, frequente collaboratore, qui nelle vesti solo di produttore come nell’ultima lavoro In Good Company), non si può certo dire che è una novità, visto la folta filmografia progenitrice dell’era del Grande fratello, che va da Quinto potere di Sidney Lumet a La morte in diretta di Bernard Tavernier ai più recenti Da morire di Gus Van Sant e The Truman Show di Peter Weir, solo per citare i nomi più celebri. Come in questi film anche in American Dreamz si parla della schiavitù delle immagini, della frenesia da divismo, di un mondo, quello contemporaneo, tutto improntato sulla visualizzazione di ciò che accade e di conseguenza tutte le relazioni, i modelli e i costumi sono condizionati da questo atto del guardare. In particolare, l’ennesimo film sul potere delle immagini e sul meccanismo della notorietà è raccontato in forma di commedia nera e cattiva, oggetto di un parodistico sfottò. Lo sguardo graffiante del regista ci restituisce il ritratto impietoso del mito del successo “a tutti i costi”, del sogno americano, vettore che alimenta il format del reality show, archetipo di una società che vive sulle immagini e vetrina dello scarso talento di coloro che non riescono a sfondare (“qualsiasi idiota può andare in tv...”, fa dire Weitz ad uno dei suoi protagonisti). Le scene da intrattenimento casalingo di prima serata e anche il titolo, si ispirano e ricalcando il programma della popolarissima trasmissione musicale americana trasmessa da Fox, American Idol, format mutuato anche dal nostro coevo Amici di Maria De Filippi, che condivide con il suddetto alcune affinità genetiche: persone sconosciute, che abbiano un minimo di talento nel ballo e nel canto, che si sfidano ogni settimana, pronte a tutto per quel famoso “quarto d’ora di celebrità” dell’uomo, comune profeticamente annunciato già in tempi non sospetti da Andy Warhol, pur di darsi in pasto al pubblico del catodico. Martin Tweed/Hugh Grant, presentatore donnaiolo del fantomatico show musicale del titolo, porta avanti quel generalismo popolare come unica risposta possibile alla legge dell’audience attraverso il suo slogan: “Portate gente strana, per strana intendo dei mostri”. Tra gli aspiranti finalisti “sognatori” concorrenti del cast del programma ci sono: Sally Kendoo, la bambolona spumeggiante, molto dolce e carina davanti le telecamere, ma cattivissima nella vita vera e Omer, un immigrato kamikaze arabo, un po’ imbranato, che ha ricevuto l’ordine dal suo commando terroristico di farsi esplodere in diretta durante la finale del programma per uccidere l’ospite speciale. Fino all’ultimo il terrorista si interrogherà sul suo gesto…“fino a che punto questo Paese è colpevole per le sue azioni? Si può dare agli americani la colpa per l’America?”… Anche perché paradossalmente egli è cresciuto ascoltando e amando tutta la cultura musicale a stelle e strisce che va dai musical di Broadway come Chorus Line alle canzoni di Frank Sinatra. Nella puntata finale finirà nel carrozzone dello show anche l’attuale Presidente degli Stati Uniti, Joe Staton/Dennis Quaid, il quale partecipa come giudice-ospite spinto dal suo Segretario di Stato, interamente rincretinito, e comunica soltanto attraverso messaggi che gli sono suggeriti tramite auricolare dal suo consigliere; e Chris, il fidanzato stupido e devoto di Sally, ferito in Iraq appena giunto al fronte. La forza della comicità della commedia di Weitz risiede soprattutto nel fatto che viene sollecitato di continuo nello spettatore il riconoscimento del presente, un ritratto tragico di certa società dell’immagine dei nostri giorni. L’infinito gioco delle maschere attoriali rinvia infatti alla miseria e alla volgarità dell’avvento della telecrazia, alcuni cliché e stereotipi della nostra cultura mass-mediatica. Attraverso le sue provocazioni, il trentenne regista mette in scena l’universo consumistico-televisivo nella sua quotidianità, giocando anche sui miti che la televisione ha prodotto. Prendono allora corpo in un’atmosfera paradossale e giocosa la ninfetta pronta a tutto per la fama, l’ebreo cantore di brani rap inconsistenti per un pubblico generalista, il terrorista che di nascosto beve la Coca-cola, il presidente che va in televisione perché farlo è “populista”. Weitz ferisce tutti con le sue frecce, non dimenticandosi di nessuno, con un’approccio ironico, aggressivo, spesso pop, fino allo sfinimento, mescolando il musical e la farsa, il cinema e la tv, consegnandoci così le contraddizioni dell’American Way of Life.
Articolo del
15/06/2006 -
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