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Se c’è un aspetto che ci fa apprezzare il cinema di Laurent Cantet sin dai tempi del suo lungometraggio d’esordio Risorse umane è l’attenzione alle storie vere e ai temi sociali e politici, deprivati però di ogni elemento cronachistico. Quella abilità tutta personale dell’illustre regista d’Oltralpe, di mantenere una certa freddezza e distanza dal profilmico, di dribblare il pur minimo eccesso melodrammatico e facili pietismi, anche quando la messinscena è decisamente forte e il tema attuale come in questo Verso il sud – Vers le sud. Tornano dunque nella sua terza opera alcune cifre stilistiche già ampiamente collaudate ne Risorse umane, in cui chiamava in causa il mondo della fabbrica e il tema della settimana lavorativa di 35 ore, e nel suo successivo film A tempo pieno, in cui rivolgeva invece lo sguardo all’attualissima questione dei licenziamenti ingiustificati e del precariato. Innanzitutto troviamo l’alternarsi tra pubblico e privato che sfocia sempre nelle sue opere nel melodramma. Altro elemento ricorrente è il divario tra ricchi e poveri, le contraddizioni del mondo contemporaneo. Verso sud si arricchisce, però, di un elemento nuovo rispetto alla precedente filmografia, quello dell’assunzione da parte dell’autore di un punto di vista tutto femminile. La pratica del turismo sessuale di marca borghese, sulle spiagge assolate e profumate di Haiti alla fine degli anni Settanta - sullo sfondo i soprusi e il terrore dei Tonton Macoutes, il braccio armato del regime di “Baby Doc” Duvalier - è affidata simbolicamente alle donne. Protagoniste assolute di questo bel film, premio Mastroianni (per il miglior giovane attore o attrice emergente) al Festival di Venezia ’62 a Ménothy Cesar, sono infatti tre bianche nordamericane: Ellen/Charlotte Rampling, Brenda/karen Young e Sue/Louise Portal. Borghesi non più giovanissime, che sfuggono dalle regole e dalla Legge del Padre della società patriarcale. Mettendo in evidenza un punto di vista davvero originale e privo di retorica su una pratica nota, che al femminile per di più, si tende troppo spesso a sottovalutare, perché considerata principalmente maschile, Cantet lascia alle sue donne il compito di rivelare le manovre del potere. L’autore sembra coinvolto, infatti, più che a una vera e propria denuncia dello sfruttamento sessuale nel Terzo mondo, a quei sottili meccanismi psicologici che stanno dietro ai rapporti tra preda e cacciatore, tra vincitori e vinti, il desiderio sessuale come sopraffazione. Partendo da tre racconti di Dany Laferrière, giornalista di Radio Haiti (vedi anche The Agronomist di Jonathan Demme, un documento di rara forza ideologica su Laferrière), Cantet mette in forma una storia che narra ancora una volta della differenza tra il ricco nord e il povero sud, tra chi può comprare tutto con il proprio denaro e chi è costretto a commerciare il proprio corpo, l’unica cosa che possiede. Ellen, Brenda e Sue sono incapaci di vivere il rapporto con “l’altro”, se non mediante il denaro. Attraverso di esso, possono ancora sentirsi desiderate, fare finta di essere amate, esercitando un potere di tradizione maschile, che invece il sistema patriarcale occidentale ha da sempre alle donne negato. Non a caso Cantet fa chiudere il film, poco dopo la tragedia, con la voce fuori campo di Brenda, che dichiara in un monologo allo spettatore, di voler proseguire la sua vacanza in altre isole del Centro America, come se nulla fosse successo. Il giovane e bello Legba/ Ménothy Cesar è l’oggetto dei desideri sessuali delle tre signore, ma gli uomini sono comparse, sono usati solo come strumenti per drammatizzare la storia. Un’opera intensa, forte ma necessaria.
Articolo del
21/06/2006 -
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