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La stagione estiva italiana è caratterizzata dalla chiusura della maggior parte delle sale cinematografiche e dall’invasione dei film horror. Ne arrivano così tanti che è scontato pensare che spesso siano rimanenze di magazzino di bassa fattura. Non è sempre così. È il caso di Shutter, che è stato molto acclamato in patria ed è arrivato nelle nostre sale solo ora, dopo due anni di stand-bay. La pellicola thailandese, scritta e diretta a quattro mani da Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom, è un inquietante ghost-story, che si riallaccia e condensa abilmente tutte le tracce seminali che hanno contraddistinto il nuovo horror asiatico da Ringu in poi (vedi la ragazza fantasma dai lunghi capelli neri e dalla pelle diafana, lo spirito che ritorna a tormentare il regno dei vivi usando i “media” per comunicare dall’aldilà, prototipo di tanta iconografia del cinema FarEast, che da Ringu di Nakata Hideo a Ju-on: The Giunge di Shimizu Takashi a Phone di Ahn Byeong-ki arriva fino a The Call- One Missed Call di Takachi Miike). Certo il film sfrutta il successo e i fasti dell’horror orientale, da cui riprende molte tematiche e stili in primis il tema della presenza fantasmatica. Detto questo, si potrebbe parlare di Shutter come un saggio sui meccanismi e le estetiche del post-horror orientale, una riflessione sul voyeurismo dell’horror thaï, ma piuttosto ben fatto. Dopo una serata passata a bere con gli amici, il fotografo Tun/Ananda Everingham e la sua fidanzata/Natthaweeranuch Thongmee si mettono alla guida per ritornare a casa. Durante il percorso, ancora pieni di alcol, investono una donna e non si fermano a soccorrerla. Successivamente il fantasma della donna ossessionerà i suoi carnefici, apparendo nelle fotografie scattate da Tun. In seguito, lo spirito da ombra, inizierà ad ingrandirsi e assumerà il corpo della ragazza dai lunghi capelli che tutti conosciamo bene... Se per quanto riguarda la riflessione sull’attrazione e la repulsione dei nuovi media (telefonino cellulare, videocassetta, polaroid ecc.) Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom non aggiungono nulla di nuovo rispetto a quanto già detto dagli stanchi epigonati (gli americani hanno già acquistato i diritti per un remake), il vero valore di Shutter va ricercato invece nella capacità di rinverdire e attualizzare il tema del voyeurismo del genere horror, seducendo e spaventando con climax improvvisi anche lo spettatore più preparato, attraverso un ritmo che tiene veramente incollati alla poltrona. Lo statuto linguistico adottato dai due autori, è molto esuberante e funzionale ai meccanismi narrativi del genere: ricordiamo la bellissima e suggestiva sequenza finale, che preferiamo non raccontare, capace di spiazzare e trasformarsi in una sapiente messa in scena. Partendo da materiali di genere, i due registi spingono il pedale su eleganti e mai scontate rielaborazioni personali, non sposando mai completamente gli elementi dei loro predecessori che hanno contraddistinto la cinematografia del paese. La tensione è molta, e anche la suggestione visiva non manca, l’unico neo è il lavoro sugli attori, specialmente nelle scene clou.
Articolo del
06/07/2006 -
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