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Silent Hill, ispirato da un famoso action adventure Konami, è un altro videogame che arriva dal cinema. Certo non è disastroso come altri stanchi epigoni (vedi per esempio il precedente Doom), perché di gran lunga il film dimostra di possedere qualche numero dalla sua: la mano a tratti felice di un regista visionario e brillante, anche se alla fine la pellicola rivela i soliti difetti di Christophe Gans. L’autore è un discreto artigiano, noto agli amanti del cinema di genere per essere un appassionato di pellicole orientale (non è un caso il fatto che sia stato il pupillo di Bryan Yuzna), ovvero un simpatizzante dell’“action” hongkonghese passata e contemporanea, che non perde mai di vista Hollywood. Il suo cinema è in realtà tutto giocato sullo stile e sui codici di messa in scena della visione; un cinema che lavora per archetipi e stereotipi, riuscendo a cavar fuori alcune interessanti suggestioni dal punto di vista della composizione dell’inquadratura, della ricerca cromatica e della pura invenzione visiva. Proprio per questo, il lavoro sulla parte drammaturgica non si concretizza mai (anche se lo script porta in calce il nome del premio Oscar Roger Avary): molti passaggi narrativi finiscono per essere sovraccarichi e la logica non sempre chiara (come l’entrata in scena della setta religiosa, o ancora più inutile lo snodo narrativo del marito Sean Bean che cerca moglie e figlia, dipanando così un’altra storia). A questo punto è chiaro che Silent Hill funziona solo in esigua parte. È difficile non notare il frequente calo del tono. Il problema più evidente del film di Christophe Gans è l’attesa. I tempi si dilatano a dismisura, come era successo al precedente Il patto dei lupi, il quale nonostante sia stato accorciato dai distributori italiani, non fu esente da noia. Certo, Silent Hill è un prodotto industriale, rappresenta il risultato di un lavoro preciso, calibrato e rodato da un grande team tecnico. La pellicola si avvale di tutti gli ingredienti di una ricetta destinata al successo: c’è una fabula di genere, c’è un’attrice di talento emergente e con sex appeal come Radha Mitchell (Melinda e Melinda), e c’è un grosso supporto in post produzione (effetti speciali e make-up di alto livello). Il plot può non sembrare nuovo, ma da un lato Gans riesce ad utilizzare al meglio l’ambientazione e gli attori. Rose/Radha Mitchell è la madre di una bambina adottiva affetta da una misteriosa malattia, una forma di sonnambulismo autodistruttivo. La bimba cadendo in trance nomina sempre un luogo, la città fantasma di Silent Hill del titolo, che sembra non esistere nella realtà. Preoccupata per la vita della figlia, Radha decide ad un certo punto di cercarla. Scoprirà la città dei morti maledetta o forse sarà stato solo un sogno? Tutto il film è iscritto nell’ambiguo registro onirico e sovrannaturale. L’estetica e la narrazione sono sempre sospese tra la veglia e il sonno (vedi l’infinito e costante zigzagare del personaggio principale nelle desertiche stanze o strade di Silent Hill), lo spazio/tempo ricordano molto la tecnica e l’universo del videogioco. Comunque, pur con tutti i suoi difetti, l’aria che si respira in Silent Hill è un’aria genuina dell’horror, quello artigianale degli anni ’80, è per questo che è difficile stroncare l’impegno e la passione per un certo cinema di genere, se pur pasticciato di Gans.
Articolo del
25/07/2006 -
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