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Mare nero, quarto e ultimo lungometraggio della milanese di nascita, ma palermitana di adozione Roberta Torre - per la prima volta la filmaker ha scelto di ambientare il film fuori dalla Sicilia - è un noir psicologico a tinte fosche, immerso in atmosfere oniriche malate, costruite sapientemente quasi tutto in interni e esterni notturni. La Torre è stata la maestra del pop e del kitch durante gli anni ’90, cineasta la cui carriera si è svolta sempre in bilico tra il cinema sperimentale e il mainstream, passando appunto dall’estetica della pop-art al ritmo da videoclip, dal musical, fino al reportage televisivo. Del resto, lontana da una narrazione tradizionale - vedi Tano da morire (1997), Sud Side Stori (2000) e Angela (2002) - l’attenzione per la sperimentazione è sempre stata una delle costanti della sua poetica, che l’ha portata sin dagli esordi ad assumere un ruolo di primo piano nella desolata e scontata new wave italiana. Un’autrice che segue un suo personalissimo impegno nell’arte cinematografica, che non scende a compromessi per ingraziarsi la critica e lo spettatore. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Locarno, Mare nero, l’atteso film della Torre, è una storia tagliente, un film di genere, che vira poi in un’altra direzione. Il risultato è mediocre, sebbene ci sia qualche trovata registica intelligente e l’atmosfera rarefatta sia perfetta (azzardando un paragone ricorda una tendenza di un certo cinema italiano contemporaneo che va da Il siero della vanità di Alex Infascelli, ad Occhi di cristallo di Eros Puglielli, o ad Arrivederci, amore ciao). Curatissimo nella confezione, complice la notevole fotografia firmata dal fido Daniele Ciprì e il bellissimo montaggio di Jacopo Quadri, certamente i meno colpevoli nella scarsa riuscita del film. È difficile restare coinvolti dal gioco pedissequemente celebrale ed esageratamente metaforico messo in piedi dalla Torre. Troppo metafisico nella seconda parte, la regista non riesce a restituire in pieno sullo schermo il senso del testo, nonostante lo script sia scritto dalla stessa e da Sir Heidrun Schleef che vanta un background interessantissimo (La seconda volta, La parola amore esiste, Arrivederci, amore ciao, ecc.). Mare nero, segna quindi una decisiva caduta di stile e di inventiva, anche se i presupposti potevano, sembrare allettanti: raccontare la storia dell’improvvisa crisi di un uomo di legge, che abbagliato dalle proprie ossessioni vede crollare e stravolgere tutte le proprie certezze. La storia: Luca/Luigi Lo Cascio, è un ispettore di polizia, che indaga su un brutale omicidio di una studentessa coinvolta nel giro dei locali a luci rosse dei privée e dei locali per scambisti. Luca, inoltrandosi in quel mondo ambiguo, in cui si celano verità inconsce, nascoste, dove nulla è come sembra, finisce per coinvolgere anche la sua compagna Veronica/Anna Mouglalis. Scommettiamo che Luca comincerà a vederla o forse a desiderarla in maniera diversa? Immagini patinate che rimangono comunque impresse: i magnifici interni e gli esterni divorati da un blu e un nero elettronico, come certe pellicole di genere degli anni ’70. Sono immagini quasi spettrali, per marcare l’oscurità, quel “mare nero” del titolo che sta dietro le cose, nel doppio fondo dell’anima. Mare nero, insomma parte bene e finisce non benissimo, confermando una tendenza della Torre: l’interesse per il corpo estetico del film, tralasciando così quello strettamente narrativo, attraverso una messa in scena ricca di movimenti di macchina e un’attenzione estrema ai particolari anatomici (mani, piedi, unghie, ecc.).
Articolo del
08/09/2006 -
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