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L’horror, sponsorizzato come di consueto in questi ultimi dieci anni da Wes Craven si arricchisce di un altro interessante tassello: il remake di Le colline hanno gli occhi, un suo classico minore, girato a basso budget nel 1977, ora diretto dal francese Alexandre Aja. Ricordate il ventottenne, figlio d’arte, autore del divertissement orrorifico giovanilistico della passata stagione, Alta tensione – Haute Tension?. Come Alta tensione, anche questo Le colline hanno gli occhi rientra appieno nel genere horror “on the road”, e il pericolo di cadere nello stereotipo è dietro l’angolo, se non si è in grado di operare un adeguato riflusso. Ovviamente il regista non è interessato all’horror fine a se stesso, quanto a utilizzarlo per esprimere la propria poetica. Le colline hanno gli occhi è infatti un aggiornamento intelligente del testo di Craven e tali premesse trovano diversi riscontri a seguito della visione del film, che risulta essere ricco di innumerevoli virtuosismi estetici del regista. Nel ’77 la pellicola di Craven fece scalpore. Erano gli anni della rinascita del genere horror nel ventennio Sessanta-Settanta (Polanski, De Palma, Cronenberg, Fulci, Bava, Argento e naturalmente Craven), contraddistinto da forti sottostesti politici e sociali (vedi la tematica dell’insoddisfazione dei reduci del Vietnam, chiara ossessione dei registi americani). Nucleo della storia è per entrambi il racconto di H. P. Lovecraft La paura in agguato (1922), a sua volta ispirato da un fatto di cronaca del XIV-XV secolo, quello di Sawney Bea, che per ben venticinque anni uccise e mangiò insieme al suo clan circa mille persone in Scozia. L’influsso del produttore Craven si fa sentire in tutta la vicenda: nel ritmo delle musiche, nell’uso della macchina da presa, che segue e disturba i personaggi, nell’estetica del gore fino a deflagare nello splatter. Certo nel prototipo di Craven si respirava l’aria di un horror casalingo, la pellicola non aveva pretese di qualità estetiche. Aia (sta già preparando Le colline II per l’anno prossimo) piglia la storia del sottogenere del viaggio, il classico horror suburbano degli anni ’70, in questo caso quello dell’innocua famiglia borghese – genitori e tre figli, di cui una col marito e la figlia neonata – in vacanza nel deserto del Sud-Ovest degli USA per festeggiare le nozze d’argento, e ne cava un remake cattivissimo e ultraviolento. La storia racconta il viaggio della famiglia Carter, la quale, piantata in asso dal loro camper, cade nella trappola di orribili mutanti, trasformati in cattivi cannibali, dalla ricaduta radioattiva degli esperimenti atomici degli anni ’50 nel deserto. A ben vedere il film di Aja, ribalta la parabola politica di Craven: l’aggressività latente dell’uomo bianco, il borghese, lo yankee, che si ribella al “male” viene qui sostituito dalla impossibilità di fronteggiare il nemico. All’inspiegabilità del “male” si sostituisce la rabbia concreta del gruppo di minatori mutanti, con un America responsabile di inquietanti esperimenti (programmaticamente mostrato sui titoli di testa, dove si succedono infinite immagini di mostruosità veramente autentiche, però non sono iconografie di esperimenti nucleari, ma immagini documentaristiche del terribile Agente Orange in Vietnam). Il remake mette in evidenza le qualità estetiche di Aja: muove bene la macchina, non tralascia sottotesti di gran lunga approfonditi e originali, insomma il regista sembra conoscere bene il mestiere.
Articolo del
18/09/2006 -
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