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Dalla pubblicità al cinema: il trentenne Sergio Mazza, uno dei rappresentanti della nuova generazione di cineasti argentini di grandi speranze che si affaccia sull’orizzonte cinematografico post-crisi, esordisce nella regia cinematografica con El Amarillo, una storia minimal, un viaggio sospeso nella quiete di Entre Ríos, regione agricola del nord-est argentino, immerso nelle sonorità melanconiche del tango. Il film low budget, costato solo 1000 euro, girato con una troupe ridotta all’osso (niente star, uso del digitale e della macchina a mano, ecc.) ha fatto il giro dei due più grandi festival argentini, Mar del Plata International Film Festival (2006) e Buenos Aires International Independent Film of Buenos Aires (2006) e poi è approdato a Venezia 63 nella sezione della Settimana Internazionale della Critica. La pellicola, al di là della ancora acerba qualità estetica, è un piccolo capitolo all’interno del variegato e poliforme cinema argentino contemporaneo, e si va ad accordare su una linea di continuità che accomuna l’urgenza di sperimentare nuove pratiche e forme di questo cinema di recente produzione. El Amarillo/il giallo è il nome di uno sperduto, surreale, misterioso e scalcinato bar di Entre Ríos, dove arriva per lavorare il giovane e ingenuo Lucio. Affascinato da Amanda, cantante melanconica, l’uomo decide di fermarsi e scopre che in realtà il bar di campagna è una casa di tolleranza dove esercitano la professione delle non più giovani prostitute… Fin dalla scena d’apertura, Mazza punta sui materiali musicali. Un’attenzione verso le melodie melanconiche del tango, come oggetto privilegiato del suo sguardo e fonte di spunti drammaturgici che orientano la costruzione del senso del film. Sviluppando tutto il proprio discorso nelle canzoni, lavora su una struttura narrativa stilizzata, una storia ridotta a semplice canovaccio di testi musicali, su un plot che ha solo lo scopo di presentarci delle sonorità tipiche locali. El Amarillo, inizia e finisce con delle canzoni (la protagonista e l’interprete delle canzoni sono la stessa persona: Gabriela Monatto/Amanda). Lo stesso autore in un intervista ci spiega come è nato il progetto, come la musica è diventata il punto di partenza per la sua ricerca: “Sono partito dalle canzoni, da alcune canzoni che avevo sentito a teatro. Non avevo né copioni, né sceneggiatura, ma solo canzoni per fare un film”. Pochi dialoghi, quindi, e molta musica come possibile soggetto per questa opera prima fuori dagli schemi. El Amarillo, come è facile intuire, fa acqua da tutte le parti. A tirare le somme, comunque, l’unica a uscirne indenne è proprio la musica, il personaggio principale che ci guida nel percorso del film. Considerando l’inconsistenza del pretesto narrativo ci s’interroga sul perché l’autore abbia voluto fare un film di fiction. Poiché anche se si dà poca importanza alla diegesi, e quasi sempre le sequenze terminano con il suono della chitarra o della voce di Amanda, la prima parte del film è una chiara fictionalizzazione. L’autore, evidentemente, non riesce a padroneggiare come dovrebbe o vorrebbe i materiali del profilmico, a coniugare il confine tra la pura finzione e il documentario, finendo per plasmare una sorta di opera ibrida, una via di mezzo. Un’amalgama poco riuscita. Forse più che come film di finzione (pratica sottolineata, tra l’altro, anche dallo stesso sottotitolo Un melodramma rural. La historia de un encuentro), El Amarillo, avrebbe funzionato meglio come film antropologico. Tutta l’opera è permeata, infatti, da una cifra documentaristica (vedi le riprese, rigorosamente sgranate, con macchina a mano) e nasce dalla fascinazione di quei luoghi (i lunghi silenzi, i tempi e i ritmi narrati sono quelli della realtà di Entre Ríos). Con atteggiamento da osservatore silenzioso, l’autore, esibisce il mondo di Entre Ríos, e attraverso un lavoro sulla musica mette in contrasto i tempi e i ritmi che le due figure archetipe, le due metà complementari del giorno e della notte scandiscono. Così quando arriva la siesta, si rallenta il ritmo della narrazione, i tempi sono lunghi, stranianti, antinarrativi e non succede mai nulla; invece, al calar della notte, si canta, si suona la chitarra e, il film segue quel ritmo. La drammaticità del giorno è in qualche modo compensata dalla gioia della notte, anche se è una gioia mercenaria. Ne emerge un film incompleto, che vive di alcuni brevi momenti di puro lirismo documentaristico e di sollecitazioni musicali, appiccicati qua e là; ma tutto questo non è bastato per impedire alla maggior parte del pubblico veneziano, a metà proiezione, di alzarsi e andarsene…
Articolo del
29/09/2006 -
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