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Dopo il successo di pubblico e di critica nel 1998 al Sundance film festival con la sua opera prima Pi greco – Il Teorema del delirio, un film folle e fantasioso, completamente autoprodotto, Darren Aronofsky, ci riprova nel 2001 superando l’esame a pieni voti con Requiem For A Dream, un’altra pellicola visionaria, trasposizione allucinante di un romanzo di Hubert Selby Jr., che conferma l’avvenuta maturazione e sancisce la nascita di un autore. Visto l’esito profondamente positivo di queste due opere, non è stato difficile riconoscere al cineasta il coraggio di praticare un cinema che sia al tempo stesso di ricerca formale e di grande attenzione al sottobosco doloroso, folle e oscuro della realtà contemporanea. È un cinema quello di Aronofsky, costantemente proteso a perseguire un’idea di messa in scena cinematografica del tutto personale. Dopo una lavorazione tormentata, sono passati cinque lunghi anni dall’ultimo lavoro, l’attesa per la presentazione di The Fountain, storia d’amore secolare, è divenuta sempre più spasmodica. Il regista aveva cominciato a lavorare sul progetto della sceneggiatura di The Fountain, già dal 2001, allora il budget era molto alto, 75 milioni di dollari, e prevedeva come protagonisti Brad Pitt e Cate Blanchett. In seguito, il tormentato progetto è stato manipolato e snaturato nel senso dagli interventi produttivi della Fox e della Warner, e anche il cospicuo budget si è molto ridimensionato (35 milioni). Così a Venezia 63, tutti aspettavano al varco The Fountain, progetto ambizioso, in concorso, quello che sembrava poter essere un vero esempio di bel cinema, punto di snodo della carriera artistica del giovane autore. Il film più ambizioso della filmografia di Aronofsky, si è rivelato, invece, il più controverso e sfortunato. Un’opera sacrificata a favore dei nuovi bilanci produttivi e dalle nuove scelte formali, quindi, lontano anni luce dalle intenzioni poetiche dell’autore. Aronofsky firma un testo (nel 2004 il regista ha riscritto la sceneggiatura con il suo amico scienziato Ari Handel) inconcludente: molti dialoghi stucchevoli, molte tematiche banalmente risolte, molti gli elementi del tutto accessori, molte azioni semplicemente accennate per prolungare un plot debole e fragile in partenza. Neanche il lavoro di collaboratori del calibro di Matthew Libatique, direttore della fotografia e Clint Mansell, musicista, sono serviti a tenere a galla il tutto. Insomma l’ultimo lavoro di Aronofsky affonda nell’abisso della mediocrità. Il regista ha cercato di confezionare un racconto senza troppi riflessi personali. Emergono in maniera esagerata una struttura architettonica filmica ricca di banali simbolismi retorici, svolazzi lirici che finiscono per appesantire un film già affastellato di temi che vanno dalla ricerca dell’immortalità, all’amore eterno, al tempo che non distrugge i sentimenti veri. La storia, così incontrollata, finisce per perdersi e a travolgere tutto e tutti, vanificando una buona occasione per l’autore. Il plot sospeso tra il fantasy e la fantascienza, fin dall’inizio procede per ellissi e per salti spazio-temporali, dipanandosi in tre epoche diverse (del resto, l’insofferenza verso sceneggiature troppo consequenziali è sempre stata una delle costanti della filmografia di Aronofsky): nel XVI secolo Tomas Leo/Hugh Jackman, è il conquistador spagnolo, che ricerca la fonte dell’immortalità, il segreto dell’eterna giovinezza, poi nel presente è lo scienziato Tommy Creo, che impegnato a trovare una cura contro il cancro, testa la corteccia di una pianta che rallenta l’invecchiamento delle cellule sulle scimmie, per salvare la moglie Izzi/Rachel Weisz gravemente malata, poi nel futuro del 26esimo secolo, è invece un astronauta che cerca il mistero della vita eterna nello spazio…
Articolo del
09/10/2006 -
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