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Ora, a quattro anni da Femme Fatale (2004), a partire dal romanzo Black Dahlia di James Ellroy del 1987, il regista di culto Brian De Palma ritorna dietro la macchina da presa, per dirigere il bellissimo noir omonimo in concorso nel ricchissimo palinsesto di Venezia 63. La vocazione al thriller-noir dell’autore americano non è un mistero, è sempre stato il genere che maneggia con più familiarità. Ma fare un lavoro di adattamento per lo schermo di un romanzo di Ellroy, soprattutto se si vuole rispettarlo, è sempre stata un’impresa ardua: i suoi sono lavori a più livelli, zuppi di trame e di personaggi. L’ultima trasposizione di una sua opera da dimenticare in fretta, è stata nel 2002 Indagini sporche - Dark Blue di Ron Shelton, un vero flop, da una sua sceneggiatura originale, poi in seguito modificata. Invece, a detta da chi scrive e dallo stesso scrittore, la più bella trasposizione cinematografica di una sua opera, l’unica adattata con successo dalle sue pagine finora è stata L.A. Confidential (9 nomination e 2 Oscar) diretto da Curtis Hanson nel 1997. Con Black Dahlia, De Palma si addentra non solo impeccabilmente nel testo di Elroy - nell’arco del film, dà voce ai personaggi del romanzo - ma anche nel fatto di cronaca. Nei titoli di coda è il regista stesso che dichiara di essersi ispirato ai personaggi del libro di Elroy e all’episodio di sangue per il resto. De Palma si distacca si dal romanzo (nella sceneggiatura firmata da Josh Friedman, quello per intenderci di La guerra dei mondi di Spielberg, sono spariti molti personaggi), ma lo fa senza mai perdere le linee direttrici della narrazione elroyana, dando voce con eleganza alla sua autorialità e centrando a pieno anche il discorso poetico e lo spirito dello scrittore. The Black Dahlia, infatti, alla fine si congederà con la punizione del colpevole dell’omicidio, cosa che sia nel libro che nella realtà dei fatti non venne mai trovato. La pellicola si ispira a un fatto di cronaca di quegli anni mai risolto e mette in scena la duplice ossessione dello scrittore: il cadavere orribilmente fatto a pezzi di Elizabeth Short (la giovane venne trovata tagliata in due, gli organi rimossi, il volto sfigurato da un orecchio all’altro, ecc.), attricetta conosciuta con il soprannome di Black Dahlia e quello della madre di Elroy, altrettanto misteriosamente morta strangolata e stuprata, invece negli anni ‘50. “Certo, per scrivere Dalia Nera è stato un po’ come una catarsi, un trucco per esorcizzare le paure…” racconterà lo scrittore in un intervista. La storia è raccontata dal punto di vista di due ex pugili (Bucky Bleichert/Josh Hartnett e Lee Blanchard/Aaron Eckhart), rivali sul ring, ora colleghi poliziotti in una città divorata dalla corruzione, che condividono l’amore per la stessa donna Kay Lake/Scarlett Johansson e l’ossessione del cadavere smembrato della Dalia Nera/Mia Kirshner. Fin dall’inizio, dubbi e interrogativi sono di rigore nel film. Il puzzle misterioso, fatto di allusioni e rimandi alla sua filmografia (emerge soprattutto l’aria di Omicidio in diretta) e ai classici della storia del cinema di genere (in primis Il mistero del falco), incomprensibile e poco lineare, si compone strada facendo, assumendo ancora una volta contorni inquietanti. Uno sguardo spietato per raccontare l’oscurità interiore, la corruzione nella Los Angeles e in particolare le apparenze e gli intrighi nella Hollywood di quell’epoca, attraverso la cifra stilistica del noir classico degli anni ’40: voce rigorosamente “off “ del narratore, crimini, poliziotti corrotti, ricchi di sfaccettature, assolutamente non unidimensionali e a volontà, intricanti dark ladies doc. Un’opera raffinatissima anche grazie al lavoro sublime del nostro scenografo Dante Ferretti e del contributo di Vilmos Zsigmond alla fotografia.
Articolo del
16/10/2006 -
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