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Sembra proprio che la Festa Internazionale del Cinema di Roma si sia presa una rivincita: finalmente nel suo palinsesto troviamo numerosi documentari, una prima edizione, quindi, che è riuscita – dobbiamo giustamente darne atto - democraticamente a trovare una collocazione, uno spazio a questo genere molto spesso sottovalutato e ghettizzato dalle logiche di mercato. La vera leggenda di Tony Vilar, è a ben vedere l’ennesimo documentario presentato nella sezione Extra, il contenitore più sperimentale e composito della prima edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma, nonché primo lungometraggio della filmografia di Giuseppe Gagliardi, autore di numerosi cortometraggi e videoclip musicali, che si era già imposto all’attenzione della critica e degli spettatori nel 2001 con il cortometraggio Peperoni, vincendo il Sacher d’Argento, al festival diretto da Nanni Moretti e nel 2003 premio della giuria al Torino Film Festival a Doichlanda, documentario musicale. Esattamente come in Doichlanda, Giuseppe Gagliardi ripropone la sua esplorazione dei temi della realtà sociale dell’emigrante e della tradizione musicale italiana, partendo ancora una volta attraverso la cifra stilistica del viaggio. La vera leggenda di Tony Vilar è infatti la storia di un viaggio à rebours nel microcosmo degli emigranti italiani in America attraverso la musica melodica italiana degli anni Sessanta. Se però il viaggio-ricerca degli emigrati tedeschi in Doichlanda è esteticamente un documentario vero e prorio, quella di La vera leggenda di Tony Vilar, è un mockumentary, genere cinematografico di stile documentaristico con l’aggiunta di qualche elemento di finzione, “mock” appunto, che si fa burla di ogni presunta verità immanente al dispositivo cinematografico. Giuseppe Gagliardi insieme all’attore/cantautore Peppe Voltarelli – quest’ultimo co-sceneggiatore e autore delle musiche originali – sono partiti verso Buenos Aires per mettersi alla ricerca di Antonio Ragusa, in arte Tony Vilar, il più grande cantante melodico - anche se oggi nessuno se lo ricorda - del Sudamerica nei primi anni Sessanta. Colui che rese famose le canzoni italiane dell’epoca in Argentina, Messico e Venezuela; celebri le sue versioni spagnole di canzoni di successo come quella di Mina, Tintarella di luna o Non esiste l’amor di Celentano, e in tutto il mondo Cuando calienta el sol, scritta dai fratelli Carlos e Mario Rigual appositamente per lui. Un mito della musica popolare che un giorno degli anni Sessanta, all’apice del successo, decise di sparire senza lasciare traccia. Per molto tempo in Sudamerica si sono chiesti che fine avesse fatto il povero emigrante calabrese che partito da Genova nei primi anni Cinquanta per l’Argentina - perché non voleva fare il lavoro del padre, il muratore - era diventato poi il famoso Tony Vilar? Il regista e il cantautore da questa storia dimenticata ne hanno fatto un lungometraggio, a metà tra la finzione e il documentario, tra storia vissuta e scene completamente inventate. Da questa storia reale parte l’incipit del film, il viaggio del protagonista, l’attore Peppe Voltarelli, che nella maschera attoriale interpreta un lontano cugino cantautore, che sentendo sempre parlare in famiglia di Tony Vilar era cresciuto con il suo mito ed ora voleva conoscerlo. I brani composti da Voltarelli ben si amalgamo al repertorio melodico-popolare di Tony Vilar, prende forma così un road-movie musicale, che diventa sempre più grottesco, colorito, pop, folkloristico, irriverente e nostalgico sugli italiani d’oltreoceano. Il viaggio si costruisce intorno a due macro-parti dominanti, una struttura narrativa dove l’elemento cardine, la chiave di volta della comprensione del testo è il linguaggio musicale, quello della musica ma anche quello dei vari dialetti che attraversano il profilmico, marcandone il tessuto linguistico. Da un lato abbiamo così la comunità italiana del Boca, quartiere delle milonghe e del tango di Buenos Aires, dove il dialetto calabrese si alterna e pasticcia con quello spagnolo e con la musicalità melanconica del tango, e dall’altro abbiamo invece, attraverso un cambio di stile e di ritmo, non solo musicale, gli italo-americani del Bronx, e si passa continuamente dall’italiano allo slang americano. Qui si alternano sipari e siparietti di personaggi di pura realtà (occhio ai credits dei titoli di coda), degli straordinari attori di strada che interpretano principalmente se stessi, aderenti a un immaginario abbondantemente affollato di croci, bracciali e patacche d’oro e di pizzerie, baci e strette di mano, ovvero una caricatura di vizi e virtù, stereotipi del connazionale emigrato all’estero, un linguaggio corporale e formale che ammicca ai filoni cinematografici che hanno raccontato gli italiani d’America. Nella pellicola Gagliardo è stato quindi aiutato dalla presenza di attori professionisti ma anche da questi personaggi presi dalla strada, detentori di una straordinaria e spontanea capacità affabulatoria. Personaggi veri che allo sguardo dello spettatore sembrano falsi (vedi il mitico Antonio Aiello alias Tony Pizza, chiamato così perché a tutt’oggi ha aperto 34 pizzerie) e personaggi che sembrano falsi, ma che in realtà sono veri e interpretano se stessi come la partecipazione speciale di Roy Paci. Attraverso una serie di interventi, pseudo-documentari, interviste tra conoscenti, amici e parenti veri e finti, si ricostruisce la storia di Tony Vilar, narrata anche attraverso filmati di repertorio. Un approccio ironico e giocoso, mescolando musical e farsa, cinema e docu-fiction, Gagliardi ha creato un testo in cui le distorsioni e le esagerazioni (soprattutto quelle della seconda parte quando la vicenda si sposta nel Bronx ) della visione prendono il sopravvento sulla storia narrata. Il fascino de La vera leggenda di Tony Vilar sta nel ritmo trasandato (in parte forse lo deve anche al fatto che è stato girato in 16mm e poi dilatato in 35mm) da strumento di inchiesta televisiva, la storia viene raccontata come se fosse una specie di reportage, scimmiottando appunto il documentario televisivo. Il procedimento non è lontano da quello di molti lavori di Daniele Ciprì e Franco Maresco (vedi Il ritorno di Cagliostro, Enzo, domani a Palermo!, ecc.), anche se sicuramente meno sperimentale del duo siciliano. Il risultato nella sua elementarità centra il bersaglio: il regista calabrese, nel suo esordio, non inventa forme e ritmi nuovi, però ci fa divertire parecchio con un coloratissimo Tony Villar. Ci voleva un mockumentary per illuminarci e ricordarci della figura di Tony Vilar, un uomo che rovinò la sua carriera perché gli strapparono il toupet, e della fragilità del successo (altro sottotesto e metafora per nulla banale del film). Una vita di successi quella di Tony Vilar che gli è stata strappata da un curioso tiro mancino del caso insieme al parrucchino!
Articolo del
02/11/2006 -
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