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“La Sconosciuta” è una sforbiciata in piena pancia. Beninteso: non è un film di denuncia. Toglietevelo dalla testa. Cioè: non primariamente di denuncia. Anzi. È un film che poggia moltissimo su alcuni stilemi di genere consolidati – fondamentalmente quelli del giallo, ancor più del thriller strettamente inteso. Questo non significa che ambedue le peculiarità – iscrizione in un genere ben preciso e però immersione in un fondale di realtà - non possano manifestarsi al massimo della loro magnitudo laddove arrivino a sposarsi con così tanta violenza di immagini, di conseguenti emozioni, di suoni (di Morricone manco c’è bisogno di parlarne). Rendendo la cornice (esterna e, soprattutto, interiore) in cui si muove la perfetta Xenia Rappoport stretta ed asfissiante. Ad ogni modo, semplificando senza rendere semplicistica la questione, è certo che “La Sconosciuta” parla di donne. Meglio: dell’essenza dell’essere femminile colta e raccontata negli estremi delle sue due manifestazioni più intense. La maternità, svenduta e desiderata. E soprattutto la sessualità, annullata e al contempo nostalgicamente evocata. Se parlo (anzi, scrivo) come Enrico Ghezzi è solo perché “La Sconosciuta” è un film tremendamente difficile da comunicare, da commentare, da giudicare tentando di andare oltre quanto effettivsmente "dice". È un film – come un po’ tutta la produzione di uno dei più grandi cineasti italiani, Giuseppe Tornatore – che butta la questione sul tavolo e poi la sminuzza fino a sfasciarla, lavora sulle sfumature, sui chiaroscuri. Anche su qualche nesso che scricchiola. Su tutto. Tornatore sa costruire così bene da potersi permettere di lasciare il difetto, da far scoprire a chi sia pronto a coglierlo. Tuttavia l’ultimo lavoro – pur scritto in modo tale da lasciare, davvero fino alla fine, il mistero sul vero segreto dell’intera vicenda e con piglio da grande romanziere – pare all’apparenza meno enigmatico del solito: Irena (l’attrice teatrale russa Rappoport) è una giovane Ucraina che arriva in una località del Nord Italia – una uggiosa Valarchi sotto cui si scorge senza problemi il lato oscuro di una Trieste letteraria da incubo - per cercare lavoro. Pulisce le scale, si lega ad un pessimo rapporto di semi-vassallaggio col portinaio Haber, cerca un impiego come bambinaia. Ma, anche, scruta, origlia, studia. Pare una ladra. Il problema non sta nei soldi, è ovvio: Irena punta a qualcos’altro. Che non sarà chiaro allo spettatore fino alla fine. Punta – e riesce - ad entrare nella famiglia Adacher: marito Pierfrancesco Favino (anonimo) e moglie Claudia Gerini (monoespressiva ma adeguata al ruolo), orafi, con la piccola Tea (la straordinaria Clara Dossena: Dakota Fanning chi?). Si sostituisce alla precedente bambinaia, conquista la fiducia di Tea, le insegna a combattere col mondo e con le sue difficoltà comportamentali. Sembra infine aver trovato una situazione appagante, quando il passato – che peraltro, attraverso infernali flashback che man mano si fanno più espliciti, non l’ha mai abbandonata – torna concretamente a farle visita, direttamente dal Sud Italia. Direttamente col volto del suo nauseabondo magnaccia Muffa, un Michele Placido sempre nudo, senza peli ed oliato. Sembra di sentirla, la puzza di muffa, solo a guardarlo. Ed è lì che, pur sullo sfondo del traffico delle schiave dell’Est Europa fatte prostituire o utilizzate come madri a comando in qualche sperduta località del Mezzogiorno, il film non scivola sulla denuncia (che però inevitabilmente c’è, perché è il quadro generale dell’intreccio) e tiene duro, continuando nel suo rigido e ritmicamente incalzante stilema noir. Fino ad una conclusione da lacrime. Come sempre, dunque, Tornatore dissipa puntualmente il mistero: accumula e racconta nell’ombra, risolve infine con vere agnizioni da teatro greco. Gli attori e la scrittura che stanno sotto al film sono di livello elevato e allora lo schema porta ad una pellicola intensa, violenta, chirurgica nei suoi tempi e nei suoi ritmi, magari un po’ affastellata ma a pensarci bene neanche troppo, visto che l’intera vicenda sta più dentro Irena che nell’ambiente circostante. Ed è questo il secondo snodo: non è un film per tutti. Per quanto Peppuccio si sia affannato a smentirlo, le letture sono due: da una parte c’è il thriller, che vive anche di vita propria e che è in ogni caso pregevole. Dall’altra parte c’è il thriller sommato all’attenta declinazione dell’elemento femminile di cui sopra. Allo spettatore l’alchimia bioculturale di cogliere ogni raggio di emozione.
Articolo del
11/11/2006 -
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