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La forza dell’immagine. Di una immagine. Una delle più famose del mondo. Di quelle che superano da subito il valore figurativo per assumerne uno iconico e simbolico potentissimo. A volte rivoluzionario. A volte conservativo, nel senso funzionale del termine. In ogni caso, sintetico: in quanto non serve altro, dopo, per spiegare quella immagine. E’ il caso della bandiera (o le bandiere?) di Iwo Jima: sei militari statunitensi immortalati il 23 febbraio 1945 mentre issano il vessillo a stelle e strisce su un monte dell’isolotto insanguinato più famoso del Pacifico, costato 7mila vite americane. Uno scatto pagato con tanto sangue. Uno scatto valso il Pulitzer al suo autore, Joe Rosenthal, al seguito delle truppe per l’Associated Press anche lassù, sul monte Suribachi. Uno scatto – infine - che ha reso tanti soldi al Governo americano, costretto, ormai al verde, a vendere “obbligazioni di guerra” per finanziare le operazioni belliche. Ma che prima di tutto, per la magia straripante di quell’impasto di luce e carta che è un’immagine, ha fatto vincere la guerra parallela, quella del Pacifico, agli Usa. Ricompattando un paese, iniettando motivazione, creando dal nulla una nuova spinta. Clint Eastwood – appoggiandosi al libro di James Bradley, figlio di uno dei tre sopravvissuti dello scatto, John “Doc” Bradley, infermiere di marina – schiude il film su due binari che corrono intrecciandosi ciclicamente e totalmente diversi in quanto a genere. Da una parte fa un film di guerra quando con una fotografia funerea, da lacrime e una ricostruzione imponente - campi lunghissimi davvero potenti - racconta lo sbarco sull’isolotto (si, c’è il soldato Ryan dietro: e allora?). Dall’altra, con quello stile amaro ed increspato che ormai gli è proprio e con ripetute e avvelenate punte polemiche, le stesse che c’erano in “Million Dollar Baby”, riporta la cronaca puntuale del tour in giro per gli Usa che i tre superstiti sono costretti ad intraprendere dal Governo per sponsorizzare l’acquisto dei buoni di guerra da parte della gente. Una pagliacciata – costretti a fare il verso a se stessi per motivare gli americani -, una necessità, un percorso intimo e rielaborativo per ciascuno dei tre. Da una parte, dunque, lo Spielberg (che c’è anche come produttore) delle produzioni più faraoniche – ma neanche tanto: di guerra ce n’è, ce n’è tanta ma è funzionale e mai sdrucciolevole. Dall’altra lo spirito anticonformista e demistificatore di un Michael Cimino meno chirurgico, forse, e meno fuligginoso ma più epico, più chiaro, più potente. Sta qui infatti l’Eastwood regista: in un pauroso e coinvolgente Zirkel im Verstehen, un circolo che dal particolare ti conduce all’universale, il regista 76enne - patriota di quelli d’altri tempi, di quelli che vogliono interrogarsi sulle piaghe della Storia e dell’Oggi - smonta il mito dell’eroe pezzo per pezzo. Lo distrugge e sottopone a parodia. Ci fa vedere che fine fanno, gli eroi di guerra: prima fenomeni da baraccone, dopo nelle fabbriche e nei campi, dimenticati da tutti. Si serve in particolare dell’alcolismo del “pellerossa” Ira Hayes, per farlo. Una fine che non hanno chiesto, perché non hanno mai nemmeno chiesto di essere degli eroi: semplicemente, di stare lì, sul campo, affianco ai propri compagni. A morire per la Patria, si. Come no. Ma soprattutto per chi ti sta affianco, per chi ti da le spalle sul campo. E che magari dopo un secondo non c’è più. Non si può restare indifferenti all’onestà intellettuale – che si trasforma in potenza filmica - di Eastwood.
Articolo del
20/11/2006 -
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