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Era davvero tanto tempo che un film non mi offriva l’opportunità di ridere così di gusto, dandomi al contempo la certezza che quelle risate provenissero da tanti intensi e scoppiettanti cortocircuiti filmici a loro modo originali ed intelligenti rispetto allo stantio modello-commedia italiota – non parliamone nemmeno. Ma anche “creativi” rispetto a quanto gli Usa hanno da proporre cinetelevisivamente parlando. “Little Miss Sunshine” - rivelazione al Sundance, Locarno e Deauville – sposa alla perfezione il suo lato indie (anche nella scelta dell’impianto road-movie: come dimenticare i deliziosi “Sideways” o “Ogni cosa è illuminata”, per rimanere agli ultimi tempi) con una sanissima caratterizzazione di estrazione sit-com che, in sede di scrittura, ha permesso ai coniugi videoclippari Dayton di poter disporre di personaggi davvero mostruosi. E, al solito, molto veri nei loro fondamentalismi emotivo-caratteriali. Il film mette su un pulmino Wolkswagen giallo limone la famiglia Hoover, sull’orlo di una crisi di nervi: papà Greg Kinnear ottimista per forza, che aspetta l’occasione giusta per fregare gli americani con la ricetta dei “nove passi per il successo“. Uno sdrucito nonno tossicomane (Alan Arkin). Un figlio esilarante, muto ed oscuro lettore di Nietzsche (Paul Dano). Uno zio – bravissimo Steve Carrel – reduce da un tentato suicidio e massimo esperto (trombato) di Proust in America. Una mamma (Toni Collette) che tenta di mediare fra le opposte disgrazie e isterie. E, ovviamente, la piccola Abigail Breslin/Olive – la vera indie rivoluzionaria della band, convinta di poter competere contro le piccole barbie plastificate - che dopo aver vinto una selezione locale è chiamata all’ultimo minuto per la finale nazionale di Little Miss Sunshine, Piccola Miss California. Nel contesto della quale, pur senza la pesantezza dell’analisi sociologica ma con la sanissima invettiva propria della parodia e della risata, lo sceneggiatore Michael Ardnt ha iniettato una cospicua dose di disincanto e cinismo, che d’altronde caratterizzano l’intera pellicola. La scassata combriccola parte così da Albuquerque verso Redondo Beach, California: fra poliziotti erotomani, disfatte personali (vedi il padre e il figlio), morti inaspettate (il nonno ci rimane dopo una sniffata), capricci meccanici e piccole epifanie personali, il quintetto approda con enormi difficoltà nel sontuoso albergone incastrato fra svincoli e autostrade dove sta per cominciare la finale nazionale. E nel contesto della quale il film – fino a quel momento più che altro impegnato a farci ridere sulle magagne della nuova, disillusa famiglia americana, ormai anni luce lontana dalla realizzazione del “Sogno” – si apre all’intera società statunitense. Epifenomeno della quale diviene lo spaventoso, raccapricciante e rivoltante spettacolo delle piccole-miss che ballano, saltano, cantano, si muovono come donne, ammiccano e maledicono. Teatro in cui Olive diviene la vera supereroina del messaggio di denuncia o quantomeno di disincanto col suo mini-spogliarello che sconvolge tutti i presenti e che è, invece, quanto di meno sconvolgente avviene in quell’albergo. E che ha anche la funzione sintetica di rimettere insieme i cocci della famiglia Hoover. C’è moltissima arguzia in “Little Miss Sunshine”, sciolta nella commedia che ammicca al grotesque di sellersiana memoria unito e unto di un gusto filmico (un' indiscutibile abilità nelle inquadrature e in certe sequenze) che fa l’effetto di uno zozzo e burbero gruppo punk sul palco di Sanremo. Non ne avevo letto nulla. Ci sono andato per scommessa. Ha cambiato faccia al mio sabato sera. Nel senso che l’ha tenuta sempre ben fissa in una tensione di riso.
Articolo del
27/11/2006 -
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