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Intrecci sentimentali e conflitti esistenziali sono al centro dell’opera prima Cages, un’intensa pellicola - co-produzione franco-belga - firmata dal promettente regista belga Oliver Masset-Depasse (già si era messo in luce qualche anno fa, vincendo il Pardino d’oro del Festival di Locano nel 2000 con Chambre Froide e nel 2004 con Dans l’ombre), presentata nella sezione competitiva della prima edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma. Girata in appena un mese e mezzo, con una media di 15 inquadrature al giorno, Cages è un duro dramma che dimostra una volta per tutte il talento di Oliver Masset-Depasse, che ci trascina per 86 minuti negli abissi dell’amore, nei moti interni dell’animo, esplorando le oscure dinamiche psicologiche amorose. È la fine di una storia d’amore, infatti, il vero motore dello script che il cineasta ha scelto di raccontarci, ambientadola prevalentemente all’interno di un solo spazio filmico, in un’atmosfera intima e raccolta da kammerspiel. Una pellicola elegantemente ricercata e attraente che circonda con le sue spire lo spettatore. L’universo emozionale di Cages è dato dalla fusione di tecnica recitativa e sceneggiatura. Una tecnica che attraverso la marca stilistica di Oliver Masset-Depasse riesce a viaggiare sempre di pari passo. L’autore giunge in questo modo a increspare sapientemente la superficie della narrazione per svelarne le illimitate sfumature. Ma punto di forza e architrave del film è comunque la maschera attoriale: perfetta, solida, un cast al di sopra delle righe, che si distingue per una folgorante prova interpretativa, brillando di luce propria. Molti i momenti condensati, dove viene enunciato tutto senza dire in realtà nulla e alcune importanti scene madri dove invece succede di tutto. Insomma un lavoro attoriale tutto giocato sulla detrazione del gesto e della parola, che spinge il pedale sulle impercettibili dinamiche di sguardo cariche di senso. La bravura dell’autore sta proprio nel mostrare, senza spiegarci nulla. Ognuno in quei momenti ha le sue colpe. Il regista sfugge con sottigliezza, come non avrebbe piuttosto fatto un banale mestierante, l’opposizione scontata e convenzionale tra colpevoli e innocenti, buoni e cattivi. Allo stesso modo elimina dalla sceneggiatura tutti quegli orpelli che avrebbero condotto facilmente dalle parti di un melodramma. In tal modo la storia d’amore tra Eve/Anne Coesens e Damien/Sagamore Stévenin, una coppia che sta felicemente insieme da circa sette anni, fino a quando uno terribile incidente riduce la donna in fin di vita, e così scioccata da renderla quasi muta, si costituisce di scene e sequenze secondo un metodo di sottrazione, senza mai raccontarle attraverso il tono mélo. Ecco allora che la crisi del settimo anno penetra nel rapporto di coppia attraverso un lavoro registico che va ad incidere sui mezzi toni, che non abbatte mai il confine della ridondanza. Eve e Damien sono davanti un precipizio: il fallimento del loro amore. La comunicazione e l’affiatamento si fanno via via semre più critici e incerti. Ma mentre l’uomo ne è consapevole, la donna allontana la realtà dei fatti, e quando si rende conto che sta per lasciarsi sfuggire l’uomo della sua vita, scopre di essere preparata a tutto pur di non lasciarselo andar via, anche di sequestrarlo e legarlo dentro casa per costringerlo a rimanere con lei e per dargli così l’ultima opportunità.
Articolo del
01/12/2006 -
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