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“The Wind that Shakes the Barley” – da un verso di una celebre canzone popolare irlandese intonata in una sequenza del film - è una summa. Una epifania potentissima di tutte le cause perse, delle lotte partigiane, dei valori universali calpestati dagli invasori. In questo senso, che sia ambientato nel 1920 in Irlanda, cambia poco – o meglio: cambia il livello narrativo, atto d’accusa di Loach verso la sua madrepatria: ma non muta quello assiologico, per così dire. Non fosse per il meritevole tentativo di riportare alla luce – soprattutto ad uso di noi continentali oltre che di memoria britannica – prima le lotte partigiane contro la presenza dei Black and Tans e dunque il disconoscimento inglese della proclamazione dell’indipendenza irlandese sancita dal voto del 1918 e poi la firma del mozzo e traballante Trattato di Pace del 1921 con conseguente esplosione della guerra civile irlandese fra firmatari e radicali. Sembra una pellicola pretenziosa, come tutte quelle che in due ore e mezza vogliono iniettare anni di sangue e politica. Ma man mano che passano i minuti l’occhio cinico e pulito di Ken Loach, padre per antonomasia delle cause perse (“Terra e libertà”, Spagna; ”La canzone di Carla”, Sandinisti in Nicaragua) riesce appunto nell’impresa di fare di un film storico di grande fattura (i costumi sono da commozione, bellissimi), una summa appunto, e cioè un manifesto universale dell’inesausta tragedia delle lotte d’indipendenza in tutto il mondo. Riuscendo dunque – con tante piccole storie, con tante piccole tragedie, grazie a gesti ed inquadrature che definire simboliche è eufemistico - a sistemarlo un gradino più in alto di un qualsiasi film storico: è in grado di piazzarlo nell’ambito dei film ideologici in senso buono. Che cioè si fanno portatori di una chiave di lettura molto netta. Chiave che, appunto, scavalla, va al di là di quanto raccontato per riaffermare certi valori e certe convinzioni a livello universale. Loach si affida al personaggio di un giovane medico (un eccellente Cillian Murphy), disilluso dalla situazione di terrore instaurata dagli inglesi – condita da rastrellamenti, uccisioni senza processi, stupri - e già pronto a lasciare la patria per emigrare in Inghilterra: è attraverso la fenomenologia e la mutazione partigiana di Damien O’Donovan che il film si fa assoluto, devastante, senza possibilità di uscirne sani e salvi. Sollecitato e biasimato dai compagni del villaggio, Damien decide dunque di rimanere ed arruolarsi nei “Sinn Féin” (in gaelico, i “noi stessi”). Di qui, grazie anche alla sua abilita di medico e stratega, diverrà uno dei principali e più radicali uomini del movimento di liberazione (o terroristico? A ciascuno la sua scelta). Lo sarà fino alle estreme conseguenze, fino ad una morte inspiegabile eppure così chiara, così scarna, così elementare e giusta. Ma anche alla morte più assurda – una doppia-morte -, per mano del fratello Teddy O’Donovan (un più manierato Padraic Delaney), ex incubo degli inglesi poi addomesticatosi dopo la firma del Trattato. E passato dunque nei ranghi della polizia irlandese tenuta sott’occhio dai militari di Sua Maestà. Ritengo sia da cretini liquidare questo film come un pamphlet anti-inglese, come ho visto fare da più parti: questo perché l’accento Loach non lo pone sull’inglese in senso stretto. Piuttosto, sulle profonde e devastanti conseguenze – mentali, fisiche, sociali – che un corpo estraneo innerva in un ambito che richiede a gran voce libertà ed indipendenza. Ripeto: leggere il film in chiave unicamente storica, evitando di allargare lo sguardo applicando i suoi principi anche a tante situazioni odierne equivale ad inquadrarlo in una chiave distorta ed estremamente riduttiva. La verità è che Loach, pur non alla sua migliore prova comunque sanzionata dalla Palma d’Oro a Cannes, crede fortemente in quel che filma e trova sempre un “trigger”, un grilletto enormemente efficace per fare di una semplice storia un romanzo universale. Che poi tornando indietro nel tempo non vi riesca così brillantemente come quando parla dell'oggi, è un altro paio di maniche.
Articolo del
07/12/2006 -
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