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Nel desolato e scontato panorama cinematografico natalizio, pochi film sono riusciti a spezzare questo triste orizzonte distributivo, uno su tutti Shortbus. Il film presentato fuori concorso nel mare magnum del palinsesto del 59° Festival di Cannes, è il secondo lungometraggio dell’attore, commediografo, regista John Cameron Mitchell, dopo l’esordio musical-boccacesco di Hedving and the Angry Inch. Quello di Mitchell è un cinema difficile, poco comprensibile e commestibile, dal quale si rischia facilmente di rimanere fuori: inquadrature estreme che colpiscono per tutta la durata del film, senza ingraziarsi lo spettatore. Il regista sutura una ritrattistica a 360° della multiforme comunità newyorkese contemporanea, mettendo soprattutto al centro del racconto l’aspetto sentimentale e il sesso di questa sfaccettata e complessa umanità. Non a caso John Cameron Mitchell è l’unico vero cantore e il portavoce più influente di tutta la comunità omosessuale americana (gay, drag-qeen, transgender, ecc.). Le sue opere sono riuscite nel difficile compito di squarciare nell’immaginario collettivo, lo stereotipo del diverso come sessualità infelice e deviante. Quello che appare chiaro, comunque, è che i suoi film sono ritorni simbolici alla natura più selvaggia, degli atti vitali e vitalistici, insomma un vero e proprio elogio degli istinti. Il film sembra infatti suggerirci di non reprimere i propri istinti (vedi in particolare la scena cruciale del finale, in cui la giovane orientale che non riesce più a raggiungere l’orgasmo con il marito, rinviene il piacere smarrito, ma non con il compagno ufficiale…). Ogni inquadratura sembra portarci a questo. Una forma eccessiva e caotica, ma dove nulla è inutile e gratuito. La città di New York, che riveste un’importanza fondamentale per il corso del film, non viene mai inquadrata dalla cinepresa, ma suggerita dalla funambolesca diversità dei suoi cittadini. Un film corale che ci racconta con sincerità disarmante e abrasiva ironia, di crisi, di scontri, di cambiamenti, di abbandoni sentimentali e sessuali nella Grande Mela, quella New York già sapientemente raccontata da Woody Allen o da Robert Altman. Il regista marcando l’aspetto sentimentale e sessuale degli abitanti di New York, fa si che la storia si sfilaccia sempre più e si svincola dagli obblighi di una struttura narrativa ferrea, perdendo così a poco a poco rilevanza fino a dissolversi completamente nella sequenza musicale en travesti del finale. È qui che, paradossalmente, ma non troppo, il cinema di Mitchell raggiunge la cima, diviene lo sguardo di una precisa visione del mondo. Shortbus, la locuzione del titolo, è il locale, il luogo, il crocevia dove questi uomini e donne si incontrano, e dove il Dio Pan la fa da padrone. Mitchell ha composto un mosaico elaborato su un paese che si è votato al miraggio perbenista borghese. Sicuramente il John Cameron Mitchell-pensiero è quello di sbriciolare questo miraggio, quest’isola che non c’è, il sogno americano e l‘ipocrisia di fondo che lo contraddistingue; lo fa con spirito faunesco, attraverso uno scorrazzamento libero e selvaggio nel suo habitat naturale.
Articolo del
26/12/2006 -
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