|
“Il mio nome è Craig, Daniel Craig”. Poco da dire (di male), su questo ventunesimo episodio dell’immortale saga tratta dall’opera di Ian Fleming. E soprattutto sul nuovo James Bond, il biondo e gonfissimo attore inglese che tanti mugugni andava sollevando almeno da due anni: 150 minuti di sostenutissimo ritmo, in un’ammucchiata di colori e sequenze speciali (mostruosa quella d’apertura sulle gru e in ambasciata) giostrate da un regista, Campbell, che ci ha abituato ad uno stile vivacissimo e soprattutto attorno ad un attore che non è bello ma, come ha acutamente osservato una signorina al mio fianco, “è maschio, e tanto basta”. Giusto: tanto basta a fare del proletario Craig un ottimo erede di Sean Connery – che senz’altro rimane inimitabile – e di Pierce Brosnan, che - diciamocelo - c'è sempre stato un po' sui coglioni: il fatto è che, al di là di Craig che al contrario incontra le nostre pregiudiziali simpatie, è proprio “Casino Royale” ad issarsi sopra le media degli ultimi, mediocri capitoli di 007 e comunque a rappresentare un caso a parte nella sterminata filmografia dell’agente segreto più abusato del mondo. Certo, ormai i film di spionaggio-strettamente-inteso sono morti, ed anche "Casino Royale" ne risente: se prima la strategia la faceva da padrona attorno ad alcune sequenze indimenticabili, il clima attuale vuole che pellicole del genere siano fondamentalmente immerse nell’azione. E spinta pure. Che difatti c’è in abbondanza. Tuttavia la buona sceneggiatura – c’è lo zampino dell’ormai affermatissimo Paul Haggis (“Million Dollar Baby”, “Crash”) - che ricalca quasi totalmente l’omonimo romanzo del ’52 lascia qualche margine romantironico ai bravi attori coinvolti nel prequel. Detto questo, e garantita l’efficacia e lo svago, c’è da dire che gran parte del merito va per l’appunto agli attori, senza i quali un intreccio pur colmo di colpi, senza i quali un intreccio pur colmo di colpi di scena non sarebbe andato troppo in là: un logorroico ma sempre affascinante Giancarlo Giannini, la bellissima Eva Gaelle Green, la splendida musa di Bertolucci in “The Dreamers”, una prorompente Caterina Murino, di cui m’ha poco convinto l’autodoppiaggio. E, soprattutto, il cattivo Les Chiffres/Mads Mikkelsen. Claudio Santamaria, purtroppo, rimane piuttosto in disparte e il suo ruolo - fra l'altro - prevede un certo automatismo da kamikaze che certo non lo premia. Lo strampalato intreccio si concentra dunque sulle vicende precedenti i capitoli a noi notissimi, e cioè quando Bond ha appena guadagnato il doppio zero che gli concede licenza di uccidere e, soprattutto, quando è ancora piuttosto “malleabile” ai bombardamenti emotivi che il mestiere di spia comporta. Ed è infatti questo, alla fine, l’aspetto più interessante: lo spietato agente dell’MI6 che pure ammazza, pugnala, si defibrilla da solo, sfreccia come un folle su ogni genere di mezzo di trasporto (questa volta c’è pure una ruspa italiana), in questo capitolo è umano. Fa troppo casino nel corso di qualche operazione, calcolando erroneamente costi/benefici. Punta e gioca lasciandosi a tratti disorientare da un eccessivo egocentrismo nel corso della partita al Casino Royale del Montenegro, dove deve battere il maligno di turno, il banchiere del terrorismo Les Chiffres, con i fondi del governo di Sua Maestà ed impedendogli così di tornare in possesso dei 100 milioni di dollari persi proprio a causa del suo intervento. Ma, soprattutto, si fa fregare da una paurosa sbandata per la mostruosa Vesper, tanto che le sequenze prima del finale ricordano più uno spot della Mulino Bianco che un film d’azione, tanto è idilliaco il quadro che di lì a poco andrà a rompersi. Insomma: è bruttarello sebbene muscolosissimo, sbaglia, rischia di morire, a tratti gli escono battute piuttosto triviali ma d’effetto – fantastica quella durante la sequenza della tortura cui lo sottopone Les Chiffres: finalmente James Bond è uno di noi. O quasi.
Articolo del
09/01/2007 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|