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Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi accusa Mel Gibson di grossolane scorrettezze storiche sbaglia bersaglio. Cosa dovrebbe esserci di storicamente scorretto in un film (e già potremmo fermare la domanda a questo punto) che – tranne che nella conclusione – di riferimenti storici strettamente intesi non ne propone neppure uno? Anzi si, il maya yucateco: ma non ho sentito nessun linguista storico discettare sulla correttezza o meno di quell’idioma.
Vogliamo discutere – mi diranno gli attenti filologi del sabato sera - dei sacrifici umani, della violenza in realtà non così documentata di certe tribù Maya, delle esagerazioni, della "creatività" storica, eccetera eccetera: bene, facciamolo. Ma gli stessi storici sono divisi su alcuni aspetti, quindi inutile proseguire. Ogni lettura è legittima.
Vogliamo discutere – mi diranno gli agguerriti genitori, i moralisti, gli ipocriti nemici della violenza che non vigilano sui figli davanti al computer e poi vogliono i divieti nel vecchio cinema – della violenza, del sangue, dei cuori strappati e pulsanti: si, facciamolo. La mia tesi è che, per quanto stomachevole in un paio di sequenze, la violenza sia contestualizzata, dunque giustificata dalla storia che si racconta.
Storia che senza quella violenza – questo è il punto, semmai, che lavora a contro il Gibson-predicatore autoproclamatosi tale – sarebbe stato un mezzo fiasco. Insomma: la violenza casomai non è insopportabile, ma è quasi l’unico elemento. E’ quasi l’assioma compositivo, e questo è un altro paio di maniche.
In realtà, molto più modestamente da una parte e dunque anche più universalmente dall’altra, “Apocalypto” è, né più né meno, un colossale action movie molto ideologizzato – propone le solite, assodate ed ormai alquanto noiose visioni care all’integralista cattolico Mel che riesce nell’esaltazione della famiglia anche nella foresta equatoriale manco fosse uno spot della Mulino Bianco – ed anche ben riuscito, in particolare nel secondo tempo. La storia stringe infatti sulla tormentata vicenda di Zampa di Giaguaro, sveglio giovanotto maya con qualche piercing di troppo ed una discreta prestanza fisica che va diligentemente a caccia col gruppo, gioca col delizioso figlioletto ed ha una carismatica moglie in cinta. Quando una tribù più forte e violenta fa strage del pacifico villaggio in cui vive, Zampa viene portato in una città lontana come prigioniero destinato al sacrificio umano. Prima, però, era riuscito a nascondere la famiglia in una grotta sotterranea. Riuscirà a scamparla e pure a fuggire. Inseguito dai nemici, li farà spettacolarmente fuori uno ad uno col solo pensiero rivolto a salvare moglie – che intanto partorisce nell’acqua che invade la grotta a seguito di intense piogge – e figlioletto. Cosa che farà, prima che l’arrivo dei conquistadores sulle coste dello Yucatàn blocchi la vicenda in un “...e il resto è storia”.
Come non può non fare il cinema – piglia il particolare, lo incornicia e però in quel particolare risiede l’universale – anche Mel Gibson racconta una storia che ha, certo, le sue palesi radici nelle convinzioni del regista – la più lampante è forse la sequenza della sconfinata distesa di morti ai limiti della città nemica: a cosa vi rimanda? Ma che, appunto, non è – checché ne dica lo stesso Gibson ormai preda di allucinazioni apocalittiche -, un film strettamente storico. Anzi. Piuttosto, ci spiattella davanti l’ennesima variazione sul tema dell’uomo in fuga, dell’autodistruzione del genere umano, della vittoria del più fedele e preparato e via discorrendo. Casella “survivor”, per capirci. Tutto questo, però, abilmente sistemato – in quanto a costumi e scenografie, con le possibilità che i corpi nudi offrono - cinquecento anni fa. Punto. Ad un attento osservatore dovrebbe essere piuttosto chiaro dalla frase che il regista ha voluto nell’incipit, di cosa si parla il film: "Una grande civiltà non viene conquistata fino a quando non si distrugge da sola dal di dentro". Qui non si parla della grande civiltà, ma semmai della distruzione. “Pura adrenalina”, ha detto Rolling Stone. Ecco. Siamo da quelle parti. E poco altro. Ma fatto benissimo.
Tacciare il film di Gibson di inesattezze storiche è dunque un errore doppio: gli fornisce lo status di film storico che “Apocalypto” non ha, in quanto film d’azione magistralmente riuscito, dalla fotografia impressionante, girato in una delle ultime foreste pluviali messicane, con un lavoro maniacale e continuo di primi e primissimi piani, di infiniti dettagli e stacchi lunghissimi. Insomma, un film che piglia a cazzotti l’occhio, soprattutto negli ultimi quaranta minuti. Un punto su tutti, poi, è innegabile: l’abilità – di cui Gibson c’ha già dato prova nei film precedenti – nelle scene di massa: vivide, pompanti, inquietanti. Un delirio. Quella dell’arrivo dei prigionieri nella città maya è favolosa e terrificante. Quasi una sequenza "anatomica".
Per il resto, mi verrebbe da dire, null’altro se non tante chiacchiere inutili. Comprese quelle di Mel Gibson. Convinto di aver fatto qualcosa che non è, e che invece è – magistralmente e al contempo banalmente – altro. Semplicemente altro.
Articolo del
22/01/2007 -
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