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Il cinema italiano, “...il più brutto del mondo...”. Difficile non pensare alla definizione di Paolo Bertetto dopo un’altra pagina di Manuale d’amore, l’ennesima e infelice variazione del filone Muccino & C., del regista toscano Giovanni Veronesi, che agli inizi degli anni Ottanta aveva definito, con humour e con argomentazione critica il cinema italiano di quegli anni; battuta che, alla luce degli ultimi sviluppi della nuova guardia del cinema italiano, calza ancora a pennello, e a ragione. Epopea della peggiore commedia all’italiana contemporanea, in cui la mediocrità e l’ingenuità estetica-narrativa regnano sovrane. Manuale d’amore 2 – Capitoli successivi, sarà, purtroppo, per certe fasce spettatoriali, un apprezzato prosecutore di un brand, di prodotti uniformati a stile e gusto televisivo già messo in pratica da Veronesi nel precedente esperimento del medesimo genere (si ricorda che il capitolo primo di Manuale d’amore ha incassato 13 milioni di euro ed è stata la seconda pellicola italiana più vista). Anche in questa pellicola ci troviamo di fronte a un racconto corale ad episodi. Attraverso i quattro episodi che compongono il film, sulla falsariga delle pellicole italiane a episodi degli anni Sessanta e in parte anche Settanta, Veronesi attinge e richiama lo schema arcinoto della commedia all’italiana. Ma la commedia in questione è ben diversa da quella che animava l’âge d’or di questo genere. Il genere succitato, nonostante possa sembrare un controsenso, al botteghino continua a fare la parte da leone, ma si spoglia però di quel cinismo e di quegli elementi graffianti e di disturbo che avevano tanto caratterizzato gli esempi migliori della commedia all’italiana, perdendo di fatto anche quella profonda attenzione sociologica verso la realtà, che incideva, come il dito nella piaga, nella sua denuncia sull’attualità. Ecco allora messo in immagini un tripudio di tipi umani standardizzati, maschere stereotipate, ripetitività di sketch e di battute tagliate su misura per un pubblico di gusto televisivo. Gli esegeti dell’opera di Veronesi, noteranno oggettivamente, un passo indietro rispetto alla sua precedente filmografia. Il sequel, già di per sé è un operazione programmaticamente commerciale, e anche in questo caso il testo è talmente privato di originalità, il che ci fa quasi venire voglia e nostalgia del progenitore. Comunque tenetevi pronti, sono annunciati altri Manuali, una sorta di serial televisivo sul grande schermo, un cinema che sempre più non solo non rimane indifferente al fascino della televisione, ma è allo stesso tempo un suo fratello gemello. Il registro è ambizioso, tocca temi alti e attuali, quali la sessualità dei paraplegici, la fecondazione assistita, il matrimonio tra lo stesso sesso, ma è condotto in maniera altalenante e frammentario, con picchi che dalla dissertazione banale arrivano fino all’accumulazione di ingenui stereotipi (non è un caso che sia la coppia gay, interpretata da Sergio Rubini e Antonio Albanese, che vuole sposarsi, e sia la coppia con problemi di riproduzione, Barbara Bobulova e Fabio Volo, che prende in esame il supporto della medicina attraverso la fecondazione assistita, entrambe si recheranno nella più moderna e democratica Spagna zapateriana). La serietà e la velleità delle argomentazioni si scontrano così con clichés elementari che finiscono per non andare più in là di una fragile e insipida macchietta. Le vie dell’amore sono infinite e questa volta l’infelice escursione del Giovanni Veronesi-pensiero nella categoria amorosa, cambia registro. Si passa così dall’impaginazione della storia d’amore nelle sue diverse fasi – L’innamoramento, La crisi, Il tradimento e L’abbandono – del primo Manuale, ai quattro episodi che indagano invece storie “d’amore estreme” come le definisce lo stesso regista. Si parte da L’eros, segmento che racconta l’attrazione erotica con toni da commedia sexy, tra Riccardo Scamarcio, un giovane costretto in una sedia a rotelle in seguito ad un incidente e la sua bellissima fisioterapista, Monica Bellucci; e si prosegue con La maternità, quella della fecondazione assistita, che malgrado l’assunto ambizioso fa un’analisi da spicciola osservazione sociologica. Segue Il matrimonio, l’episodio più folkloristico, quello del duo gay, che dovrebbe far ridere, e invece finisce per esibire delle noiosissime gag riciclate da altre situazioni. Infine l’ultimo episodio, L’amore estremo, che vede il pimpante ma maturo cinquantenne Carlo Verdone, uomo sposato che perde la testa per una ragazza molto giovane, la spagnola Elsa Pataky. La pellicola nasconde molto bene il solito mestierante di turno, attraverso location e scenografie degne, nomi noti nel cast, alcune soluzioni drammaturgiche costruite a tavolino, come la consuetudine durante lo sguardo in macchina di affrontare argomenti “alti” (vedi Fabio Volo che recita, reiterpretando, con senso dell’umorismo agli astanti, le prime righe dell’art. 13 della Legge 40: “in Italia non si possono scegliere gli spermatozoi buoni da quelli cattivi, ecco perché siamo andati in Spagna” o ancora Claudio Bisio che affrontando il tema della maternità ci ricorda che “l’Italia resta all’ultimo posto per il tasso di natalità”). Il regista incapace di svelare contraddizioni con la forza dissacratoria della commedia, gioca con un mix atrofizzato e indebolito di luoghi comuni, ripescati qua e là in qualche film del passato. Le microstorie sono infatti collegate tra loro dalla voce diegetica di un deejay, Claudio Bisio, conduttore del programma radiofonico, Manuale d’amore, alla maniera di Radio Freccia o di Tre metri sopra al cielo (solo per citare qualche arido esempio), e ancora dalla stazione radio ascoltiamo Elisa, che canta Eppure sentire (un senso di te), leitmotiv accattivante del film e architrave di un discorso rigorosamente commerciale, anche questa operazione non è del tutto originale, sembra mutuata da La finestra di fronte o da L’ultimo bacio, ove altre cantautrici italiane, Giorgia nel primo caso e Carmen Consoli nel secondo, avevano un ruolo di primo piano nel sottolineare con il motivo musicale l’appeal emotivo della storia. Cosa dire ancora di chi decide di concludere dopo un tradimento che “la famiglia è importante.. è un valore prezioso...”. Insomma un bisogno di ridere che nel nostro cinema risulta sempre più consolatorio, caratterizzato dalla rinuncia al pensiero e dalla convinzione della perfetta permeabilità tra cinema e televisione.
Articolo del
25/01/2007 -
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