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Alessandro Angelini, uno che di mestiere fa il documentarista, sa bene come ripulire un soggetto ed una sceneggiatura scivolosi dall’insidiosa retorica buonista. E infatti con “L’aria salata”, esordio dignitosissimo al lungometraggio drammatico, ci riesce piuttosto bene. Sbattendoci in faccia – si, certo: magari tirando per la giacchetta una scrittura a tratti un po’ frettolosa – un’epifania violenta di un ritrovato e subito svanito rapporto fra padre e (non) figlio.
Fabio (Giorgio Pasotti, interessante che nel film non venga mai specificato il cognome) fa l’educatore in carcere. La sua è una posizione di responsabilità: dei pareri che fornisce ne tiene conto il giudice per la concessione dei benefici carcerari. Fabio è cresciuto senza un padre. Che tanti anni prima, quando era bambino, è finito in carcere per omicidio. E non ha più voluto sapere nulla della sua famiglia. Fabio è fondamentalmente solo: unico appiglio affettivo è la sorella Cristina – Michela Cescon, ormai una duttilissima garanzia. Ha una ragazza, ma è quasi come se non ci fosse – e peraltro rimane il personaggio meno tratteggiato del film, per quanto Katy Saunders sia davvero una bomboniera. Sembra capire, dunque, ma non capisce. Anzi. Si scontra contro il conformismo di suo padre, che lo vorrebbe fuori dal carcere e con un lavoro più “regolare”. Fabio non ci pensa nemmeno. In un certo senso – è questo lo snodo forte del film – pur svolgendo con successo e pugno duro il suo lavoro – sta aspettando. Ha una dolorosissima missione da compiere. Nonostante non abbia la benché minima strategia in mano – un po’ quanto accadrà specularmente, poco dopo, al padre -, sta attendendo. Sa che prima o dopo gli capiterà quanto sa potergli accadere: l’incontro con un genitore, Luigi Sparti (intenso Giorgio Colangeli), che non sa di ritrovarsi di fronte il figlio, nelle vesti di educatore.
E a questo punto, ottenuto il suo primo risultato, Fabio ha un solo obiettivo: capire. Capire il perché di tanti anni di silenzio. Dell’omicidio che ha sbattuto il padre in galera. Di come mai quel padre sia stato come ingoiato da quell’universo carcerario che esce anche sensibilmente diverso, da queste sequenze – non a caso il film nasce da un periodo di volontariato del regista a Rebibbia. E capire soprattutto se c’è la speranza che quel rapporto che non c’è quasi mai stato e che tanto lo ha lacerato, è recuperabile. Così Fabio – mentre il Mondo gli scorre letteralmente intorno – riesce a far concedere un permesso di un giorno a Luigi. Ed è qui il punto di equilibrio del film, dove Angelini inietta sia le sequenze figurativamente più importanti – l’uscita dal carcere, il giro nel centro commerciale e al supermercato, il dialogo nei giardinetti, la tac di Luigi - sia quello sviluppo narrativo che sembra promettere bene ma che terminerà in tragedia.
Sparti è un cane bagnato. Non sa cos’è il Mondo, dopo vent’anni di galera. Rischia di venire risucchiato da quell’altro universo concentrazionario che è costituito dalle metropoli moderne, e di non resistere nemmeno un giorno. Poi – fra alti e bassi, e in un’accelerazione narrativa che concediamo ben volentieri al regista – qualcosa sembra sciogliersi. Anche se in fondo rimane una costante: l’assenza di un progetto. L’impossibilità di vedere oltre le mura. Sia da una parte, Luigi – prototipo foucaultiano della sterilità carceraria, inabile al domani ed accartocciata su di uno ieri punitivo oltre che sui suoi deprimenti equilibri di potere e di lacrimoso quieto vivere. Sia soprattutto dall’altra, Fabio, che quel padre lo ha sempre cercato, pur non avendone mai sentito le mani sulla testa. E che però, nonostante tutto, dopo averlo ritrovato non riesce ad abbandonarlo.
Pasotti è bravo anche e soprattutto perché il personaggio è cucito addosso a quanto gli riesce di meglio: scattoso, imbambolato, tutto concentrato sul lato nevrotico dell’agire umano, dei suoi movimenti e delle sue gestualità. Colangeli è più completo e lavora su materiale più intimo, toccando paradossalmente più registri: violento, drammatico, addirittura sfiora in un paio di battute il comico. Ed è quindi più credibile, anche nei suoi scatti di epilessia (altro nodo importante: prima ritenuta falsa, poi svelata dalla tac). “L’aria salata” è un ottimo esordio perché europeo nello stile – con quella fotografia scandinava ed umida di Arnaldo Cantinari, tutta rintanata fra le pareti del carcere e sottolineata dalla bella soundtrack montata da Luca Tozzi con dentro Julie’s Haircut, Elle, MiceCars – e nel modo secco, nevrotico anch’esso di sviluppare un intreccio evitando accuratamente la facile commozione e mirando dritto al cuore del problema: il titanico - e però indissolubilmente sanguigno – scontro fra un padre mancato e un non-figlio mozzato nell’anima.
Articolo del
23/02/2007 -
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