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La malattia e l’anormalità sono i protagonisti dell’ultimo film di Carlo Verdone Ma che colpa abbiamo noi. Sette vite legate da problemi esistenziali dei più svariati e da un’ottantenne psicologa, che cerca di curarli con corali riunioni pomeridiane, ci conducono in una storia in cui la solitudine risulta essere la vera paura di ognuno. Alla morte della dottoressa, a cui i sette pazienti assistono senza rendersene conto, il sentimento predominante è quello dello smarrimento: quella cura di gruppo era divenuta infatti un momento di socializzazione e di condivisione dei problemi ma anche delle emozioni, aveva assunto un ruolo fondamentale in quelle vite, ne era divenuta quasi lo scopo. Il pericolo che la morte della psicologa possa distruggere quel (se pur precario) equilibrio spaventa tutti e, perciò, tutti sono propensi a perseverare in quegli incontri, anche a costo di ricorrere ad un’autogestione più distruttiva che curativa. D’altra parte la malattia c’è e i sette pazienti vogliono che rimanga, è il loro pretesto per potersi vedere, è il pretesto stesso per continuare a curarsi: è il motivo da dare a sette esistenze che non trovano più nessuno stimolo nel mondo esterno, o almeno in quello normale. La normalità è, infatti, del tutto assente in questo film: non sembra poi così sano il padre di Gegé, né tanto meno lo sembra l’amante di Flavia o l’amore “virtuale” di Chiara. Tutti i personaggi che compaiono nelle vite di questi sette pazienti (pazienti della psicologa morta? di loro stessi? o, semplicemente, della vita?) hanno infatti in sé un qualcosa che parla, a sua volta, di malattia: a volte è l’elemento morboso, a volte è quello maniacale, l’unico personaggio “normale” è costretto a fuggire perché inadeguato a un mondo di tal genere, perché troppo giovane per capirlo. E’ Manuel, il figlio di Gegè, che vive in America e non conosce praticamente suo padre, arriva per una vacanza in Italia e fugge via dopo un solo giorno, inorridito dalla severità del nonno nei confronti del padre e dalla incapacità di reagire di quest’ultimo. La malattia di Ma che colpa abbiamo noi è lo smarrimento di un Io calpestato anzitutto dal rifiuto dei propri problemi, onta innominabile di qualsiasi essere umano. Non sembra esserci spazio infatti per qualsiasi sfumatura: tutto è o nero o bianco. E così anche nelle immagini di questa, ironica e pungente, storia o è giorno o è notte; o c’è il sole o c’è il buio. L’azione avviene attraverso l’inazione dei sette “malati”, incapaci di fare realmente quello che dicono. Caratterizzate da una grande ironia le parole sono le vere protagoniste delle varie scene. Sono appunto le parole ad accusare la psicologia come cura dell’anima ( si veda l’episodio del funerale della dottoressa ), sono sempre loro a riscattarla nelle sedute che gli amici di Gegè continuano a fare perché fiduciosi in questa cura, e ancora sono sempre loro, testi scritti di una chat line, a dare vita alla storia d’amore (immaginaria) di Chiara. E sono sempre e unicamente le parole, sia dette che non dette, dei sette protagonisti a farci riflettere sulla vita e sulle sue malattie. E’ una commedia ben riuscita Ma che colpa abbiamo noi, carina e divertente, col difetto però di avere alcuni personaggi mal caratterizzati come la ninfomane Gabriella e l’omosessuale Luca. Di loro infatti sappiamo ben poco; e poco dicono oltre che i loro discorsi anche le loro espressioni: sappiamo solo che sono in cura e che mal si accettano; ma ci poniamo comunque tanti interrogativi sulle loro figure, per i quali troviamo solo vaghi accenni di risposta. In un film in cui non si è voluto avere un protagonista di spicco questa “disparità” risulta alquanto stridente, e appare più come una svista che come una scelta. Nel complesso l’opera è comunque buona, piacevole e ironicamente coinvolgente. I personaggi di Verdone ci spaventano un po’, ci spaventano le loro vite e le loro condizioni; ma attraverso i loro pensieri, i loro monologhi, i loro dialoghi caratterizzati da una ironia davvero coinvolgente ( per la quale vanno fatti grandi elogi a Verdone ) troviamo quel distacco necessario per riflettere sia su noi stessi che sui sette “malati”di questo film e per accettarli per quello che di complicato sono in quanto esseri umani. Riusciamo ,così, in questo modo a trovare il giusto sorriso per ridere dei nostri difetti e , perché no, anche dei nostri problemi. Senza cercare per una volta nessun colpevole!
Articolo del
03/02/2003 -
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