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Una centralinista e il suo amante. Una parrucchiera e suo marito – che è anche l’amante di prima nonché il direttore dell’Hotel Amabassador di Los Angeles, “una città nella città” e quartier generale – nel giugno del 1968 - della campagna elettorale per le primarie del senatore Robert Kennedy. Quattro attivisti del partito Democratico. Due giovani sposi per forza “per scampare il Vietnam” - e poi per amore. Una cantante alcolizzata e il suo uomo frustrato. L’ex portiere dell’Hotel e il suo amico pensionato. Un aiuto-cameriere messicano appassionato di baseball. Il cuoco-filosofo. Gli scacchi. La rabbia. L’amore. Le speranze e il cinico disincanto di un decennio davvero monolitico per la storia del ‘900. Insomma: è la gente la vera protagonista di “Bobby”. Il film dell’ormai abile Emilio Estevez, infatti, è uno di quei “classici” (nel senso, quantomeno, altmaniano) film che sfruttano una fra le più affascinanti – ma anche rischiose – strategie narrative a disposizione di sceneggiatori e registi: delineano cioè un fenomeno, un personaggio, un evento per assenza, sfruttando la polifonia dei numerosi micro-intrecci che ne formano la sagoma disponendosi in un’unica, chiassosa catena. Nel film infatti, il personaggio del senatore Robert Kennedy non c’è. Non esiste. Eppure la sua figura ne esce enorme, in tutta la carica innovatrice e pacificatrice. E’ una pellicola che ha infatti il pregio di disegnarci quanto più possibile la persona-Kennedy. E che come tale non poteva di certo propinarci un secco simulcro attoriale. A raccontarci Bobby – ma soprattutto a raccontarci quell’America che, pur vogliosa di poter cambiare strada, non ha però mai saputo difendere i suoi più preziosi profeti – sono i clienti del grande albergo nel quale la notte del 4 giugno arriverà, per festeggiare la vittoria appena registrata sul rivale McCarthy, proprio Kennedy. Lo spunto (si pensi solo a "Grand Hotel" con Greta Garbo, a "Nashville" ma davvero ad un’infinità di pellicole) è appunto trito e rischioso al contempo. Ma “Bobby”, oltre che per una fortissima eleganza intrisa a qualche spunti surreali alla Cimino (la sequenza dell’LSD, per esempio), se la cava egregiamente perché delega ai filmati d’archivio la funzione-portante della sceneggiatura. Le varie storie - affidate ad un cast all stars fra cui spiccano almeno Sharon Stone, Helen Hunt, Demi Moore e William Macy - sono infatti (dignitosissimi) contrappunti nemmeno troppo didascalici – sebbene volutamente patinati proprio in contrasto ai filmati d’epoca - di quanto ci viene mostrato nelle immagini e, soprattutto, ci viene fatto ascoltare nei ripetuti interventi e discorsi di Kennedy. L’America che Kennedy raccontava era infatti l’America che ormai tutti erano pronti ad accogliere, era l’America che serviva, allora, in quel momento, ad un secolo tutto oltre che agli Stati Uniti: una nazione solidale, pronta a lavorare insieme per eliminare finalmente la necessità perpetua del nemico costante, ritirarsi dal Vietnam ed abbattere le diseguaglianze interne. Il film quindi riesce da una parte ad incarnare con grande scioltezza quella tecnica compositiva polifonica che ne incarna certo la cifra strutturale ma che non ne è tuttavia il dato centrale. Questo, a ben riflettere, sta piuttosto in quella lancinante commistione docu-fictionistica che dà a “Bobby” anche una leggera patina tipica del filone “sindrome del Vietnam”. Ma – beninteso – con pregio di serbare una carica enormemente attuale. Una valenza che ci fa rimpiangere tante grandi vite - si, perché Bobby è anche Martin e John - perse nel torpore di un’America degli anni ’60 tanto spaccata quanto sanguinaria. Assenza raffigurate, oltre che per il peso specifico che avevano all'epoca, anche in funzione di quanto avrebbero potuto fare e ”cambiare” da allora fino al nostro altrettanto sanguinario oggi.
Articolo del
09/04/2007 -
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