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Ultimo lavoro portato a termine dai due fratelli registi di San Miniato, La masseria delle allodole è stato l’Evento Speciale alla 57ª Berlinale, ed è un film, che ancora una volta, come in passato ha una radice letteraria. Specialisti in adattamenti cinematografici di opere letterarie, i Taviani hanno infatti da sempre teso un rapporto privilegiato con la letteratura, come testimonia una parte cospicua del loro curriculum. Dopo Padre padrone di Ledda per l’omonimo film del 1977, Pirandello per Kaos, Padre Sergio di Tolstoj per Il sole anche di notte, Le affinità elettive di Goethe per quello del 1996, Resurrezione di Tolstoj per la parentesi televisiva, La masseria delle allodole ispirato al commovente romanzo omonimo di Antonia Arslan, che racconta il genocidio armeno del 1915 ad opera dell’esercito turco, nel corso della prima guerra mondiale. Un massacro rimosso dalle pagine della Storia, visto attraverso il melodramma privato della ricca famiglia Avakian. Decapitazioni, mutilazioni, stupri, massacri, deportazioni, neonati uccisi dalle stesse madri, immaginati nel fuori campo, come consapevole utilizzo espressivo per amplificare il significato tragico. Licenze stilistiche estreme appartenenti quasi al genere horror, non nel senso tradizionale del termine, che la regia si concede per far capire la follia della diaspora. Paolo e Vittorio Taviani sentono così il bisogno di catapultare lo spettatore nel genocidio armeno, senza però raccontarne nel dettaglio la Storia, posando il proprio sguardo sulla fiction, attraverso una preminenza dell’effetto visivo sulla scrittura filmica. Senza dubbio, bisogna osservare che La masseria delle allodole è un feuilleton, semplice e fin troppo schematico e che non si pone certo la finalità di penetrare a fondo nella tragedia armena. Il modus operandi dei Taviani, dunque, contenuti e approccio formale non si distaccano dal modello incarnato da sempre dai due fratelli: ricerca di temi forti per mezzo dell’ideologia e una pomposa ricostruzione storica attraverso la finzione. Così al di là delle profonde rivoluzioni digitali e delle mode postmoderne di scrittura cinematografica del Terzo Millennio, i due registi sembrano rimasti legati in modo coerente alla loro cifra stilistica. Viene allora l’impressione che sia proprio questo impegno ideologico, la categoria, che ha provocato alla lunga, alla carriera dei due autori, un blocco espressivo. Una macchina-cinema, quella dei Taviani, che – per chi scrive - ha difficoltà ad andare avanti, a dare cioè un senso aggiuntivo all’immagine che stabilisce di mostrare, quel sottotesto semantico che va ben oltre la semplice denotazione. Un testo, quindi, non perfettamente riuscito, ma che ci apre a spunti di riflessione sulla storia recente non solo armena, rimandando inevitabilmente con preponderanza ad altri inutili olocausti.
Articolo del
23/04/2007 -
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