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Warning! Questo film non è adatto a tutti, se preso con cautela potrebbe risultare illuminante, guardare almeno una volta prima di decidere che fate parte della categoria di quelli che diranno: non andate a guardarlo, non vale la pena. Per essere una recensione a favore l’inizio è un po’ strano lo ammetto, ma l’onestà prima di tutto, questo film davvero non ha bisogno di complimenti vanesi e abbellimenti, non è bello, non è un blockbuster, il regista è giovane e la produzione low budget, indie come si dice oggi, molto indie. L’onestà cruda è ciò che ne fa un film da vedere, la mancanza di veli, nessuno, né mentale né fisico, si vede tutto quello che c’è da vedere. Chapter 27 è la storia (nulla di biografico) di Mark David Chapman nei tre giorni trascorsi a New York, dall’arrivo all’omicidio di John Lennon. Basta. Chapter 27 è Chapman, un viaggio nella sua mente attraverso i suoi occhi e quelli di un paio di altre persone: una fan dei Beatles interpretata dalla giovane, ma sembra promettente, Lindsay Lohan e un fotografo che aspetta lo scatto fortunato sotto casa di Yoko e Lennon assieme ai fan che ci fanno la fila tutto il giorno. Chapman è Jared Leto, o Leto è Chapman, lecita confusione vista la trasformazione da fascinoso attore/cantante a grasso e viscido omicida psicopatico. La storia si spreca, si è una sola, la coerenza prima di tutto a casa Leto: per raggiungere il peso forma di circa cento chili ne ha dovuti metter su trenta a furia di fast food e (il trucco) drink di Haagen Dazs al cioccolato, salsa di soia e olio. Immagino la faccia di chi legge, schifo, ma il risultato paga perché si fatica a vedere la differenza tra Leto e Chapman e perché il processo è parte fondamentale dell’azione davanti alla cinepresa. Internet grida allo scandalo già prima della presentazione di quest’inverno al Sundance Film Festival, nascono siti di protesta e di boicottaggio, perfino una petizione per fermare l’uscita del film, i fan dei Beatles e la stessa famiglia Lennon si battono per la memoria di John, perché il killer non deve avere la fama che secondo loro voleva, Chapman per loro non è Chapman ma L’innominabile e il film non deve far sembrare una vittima il carnefice, non deve suscitare simpatia. Nessuna di queste persone credo abbia visto nemmeno un frame del film. Viscido, brutto, antipatico, schifoso, lurido, pazzo, malato, pericoloso, tutti aggettivi che si addicono al Chapman che si vede nel film. Leto è fantastico, non lo dico solo perché lo adoro, si lo adoro, ma questo non è che un motivo in più per credere che la performance sia degna di nota: nonostante il mio ‘amore’ nemmeno per un momento ho visto lui dietro la maschera di bruttezza morale e fisica del personaggio che interpreta nel film, ad ogni scena l’istinto è molto simile ad un conato, schifo e fastidio nel vedere una persona brutta da tutte le angolazioni, sotto ogni aspetto. Ogni scena ti tiene sulle spine, non si sta seduti comodi guardando Chapter 27: l’elemento sorpresa è zero, tutti sanno cosa è successo, ma non importa, anzi, per un’ora e mezza aspetti, aspetti che il fatto accada, sai che succederà e sai tutti i dettagli ma sei costretto ad aspettare, a vivere con questo individuo disturbato i suoi disturbi, a seguire passo passo, rifiuto dopo rifiuto, il declino (o l’ascesa?) verso la pazzia. L’immagine di Chapman si risolve in ogni inquadratura, in ogni dialogo e in ogni pausa, in ogni piccolo gesto (da apprezzare specialmente il ruolo degli occhiali) tutto in questo film parla di pazzia, quella vera non quella cinematografica abbellita da esternazioni folli o facce buffe. Fin dai titoli: un tappeto, solo le fibre di un tappeto marrone che si trasforma in un campo di grano e poi di nuovo nelle fibre sintetiche, poi un lago e di nuovo il tappeto e sappiamo che stiamo guardando con gli occhi di Chapman perché è la sua voce che nel buio dell’inquadratura nera ci introduce al primo step: l’esaltazione. Poi la caduta del mito, il rifiuto sociale, l’incapacità di comunicare con gli altri, i disturbi sociali e quelli psicologici, la schizofrenia in un crescendo estenuante (monotono forse per chi non legge tra le righe e i gesti) che non potrebbe descrivere meglio cosa significa non essere normali, essere fuori, essere semplicemente pazzi con le voci nella testa. In questo senso la regia è innovativa nonostante la mancanza di evoluzioni sorprendenti, le inquadrature classiche incorniciano il mondo attraverso gli occhi della mancanza di ragione o senno. Chapter 27 è un riferimento al libro di Salinger ‘Il Giovane Holden’, storia di un ragazzo disturbato ed estraniato che finisce in manicomio: il libro ha solo 26 capitoli, Chapman ne compra una copia e nella prima pagina scrive da Holden Caulfield a Holden Caulfield, questa è la mia dichiarazione. Chapter 27 è un vivido e accurato ritratto di follia umana, un film che parla del fallimento dell’umanità (come afferma Leto tutte le volte che gli viene chiesto perché abbia deciso di suicidare la propria carriera cinematografica con questo personaggio). Non è un film facile, non è un film piacevole nonostante nulla di male si possa dire sulla regia dell’esordiente J.P. Schaefer, che non è fantastica ma nemmeno mediocre, acerba. Non è un film bellissimo o rivoluzionario secondo molti canoni moderni, ma non ho mai visto nessun regista mostrare al pubblico la verità in modo così autentico, nessun altro film o documentario ha saputo spiegare e far sentire allo spettatore la pazzia, quello che significa impazzire, perdere la ragione ed essere soli. Le lunghe pause sono verità tanto quanto i dialoghi e forse anche di più, ogni gesto ogni inquadratura è lì per una ragione, un schema preciso e studiato che si rivela un metodo più che ottimo per spiegare il caos (mi ricorda le tematiche di Kubrick, il labirinto contro l’ordine, la follia contro l’innocenza). Magari vi alzerete dalla poltrona prima della fine o non riuscirete ad alzarvi fino alla fine dei titoli di coda, ma ne vale la pena, in un modo o nell’altro questo film avrò raggiunto il suo scopo. Ai detrattori chiedo: come ho fatto a scrivere una recensione al film che ritrae l’assassino di Lennon senza quasi mai nominare i Beatles, John o Yoko? E’ perché il film non vuole esaltare o predicare, non fa apparire buono, poverino o anche lontanamente simpatico un individuo (una figura storica?) evidentemente disturbato. Nemmeno John Lennon è un martire, sono persone: imagine all the people living life in peace. Chapter 27 è la prova del fallimento di quell’umanità cantata dall’ex Beatle. Ad oggi il film non ha ancora trovato distribuzione: imagine, give this film a chance.
Articolo del
07/05/2007 -
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