Cosa intendevano tirar fuori Rulli e Petraglia, i due sceneggiatori, dal libro autobiografico “Il fasciocomunista” di Antonio Pennacchi? Forse una “Meglio gioventù” in salsa comica? Sperimentata la formula, variamo sul tema mutando di stile. Dal drammatico all’umile. Chissà. E peccato, perché forse con la stessa durata del film di Giordana, anche questo di Daniele Luchetti – sotto il profilo dell’approfondimento storico – ne avrebbe tratto giovamento. Detto questo, e detto che è sempre sbagliato tirare fili troppo spessi da un’opera all’altra, c’è da riconoscere che “Mio fratello è figlio unico” funziona solo ed esclusivamente se lo si affronta come una commedia in salsa agrodolce che pesca dagli anni ’60 e ’70 tutto quello che anche le ragazzine scamarciche possono saperne. Cioè poco, pochissimo. E lo monta pure male: nessi saltati, accelerazioni folli e soprattutto semplificazioni icastiche a volte azzeccate (il Beethoven storpiato dai maoisti) ma davvero insufficienti. Come dire: troppo furbe. La sensazione che ne rimane, infatti, è esattamente la medesima di “Romanzo Criminale” – e non vorrei che questo andazzo stesse tramutandosi in patologia filmica. E cioè: mettiamo in scena delle linee personali, degli intrecci intimistici valendoci di quel poderoso ed epico sfondo dell’Italia sfrondata da rossi e neri, terrorismo e piombo, affaristi e sangue, sempre e comunque coi tagliolini in brodo della mamma sul tavolo. Ci siamo capiti: macchiettismo storico allo stato puro. Nuove vicende in scena su quel prezioso fondale che la drammatica storia contemporanea nostrana ci fornisce.
Questa sarebbe una scelta. Comprensibile. Anche condivisibile, perché no. E che magari potrebbe portare a buoni risultati. Invece “Mio fratello è figlio unico” non coltiva a fondo nemmeno questa variante. Il film si regge totalmente sul fascista (poi comunista, mai troppo convinto di nulla) Accio/Elio Germano, magnifico in tutti i sensi. Affianco a lui, il comunistoide Manrico/Riccardo Scamarcio, discreta spalla. E qui sta il film: nel loro rapporto violento ma sempre onesto. Nella loro – e in particolare in quella di Accio – abbozzata fenomenologia politica, più irrazionale ed intimistica che ponderata. Fine. Stop. Intorno a loro macchiette e poco altro. Due attori notevoli come Angela Finocchiaro e Massimo Popolizio escono dai loro ruoli enormemente limitati: non hanno tempo, non hanno modo né dialoghi che permettano loro un minimo di lavoro sul personaggio. Tiri su il lembo della bocca, e li dimentichi dopo pochi secondi (ed è difficile far fare questa fine alla Finocchiaro, pensate a “Non ti muovere”). Il resto, ad eccezione di un ruspantevole Zingaretti, non offre molto. La seconda parte del film, poi, è di una velocità pubblicitaria nel suo giustapporre modificazioni e “maturazioni” personali davvero imbarazzante – perché non controbilanciata da uno sviluppo sostanziale del lato personale della storia.
Dunque se non va da una parte (quella del film a sfondo storico: non è l’intento del regista) e non va dall’altra (quella del film attento alle vicende personali e che dunque il fondale lo sfrutta come atmosfera e non come chiave di volta) dove va “Mio fratello è figlio unico”? Da nessuna parte. Ed è un peccato, visto che Luchetti ci aveva abituato all’abilità circolare del risalire all’atmosfera sociale direttamente dallo spunto microcosmico (“La scuola”, “Il portaborse”) riuscendo al contempo a sposare appunto la dignità socio-storica alla profondità intimista. Qui tutto sembra troppo schematico. Per fortuna salva il film affidandosi appunto ad Elio Germano, che è il miglior attore italiano di questo momento: ha le facce, ha la credibilità di uno di noi, ha la versatilità di un grande attore – bellissima la transizione dall’Accio bambino all’Accio adolescente, vale il prezzo del biglietto. Si attacca a trovate stilistiche molto forti e a tratti anche coraggiose (l’inno di cui sopra, l’uccisione di Scamarcio, lo stato di distruzione di una casa in cui non sarebbe sbagliato scorgere la nazione-Italia, una certa secchezza nei pochi campi medi e lunghi, una Latina ritrovata al Sud davvero notevole). Infine si fa forte di una colonna sonora popolata da Peppe Servillo degli Avion Travel, Betty Curtis con Chariot, Little Tony con Riderà e la splendida Nada con Ma che freddo fa e Amore disperato. A tratti è proprio la colonna sonora di Franco Piersanti – popolare, rapida, piena di tanghi – a tenere assieme i pezzi di una commedia sbilenca e monca.
Tutto troppo facile, troppo divertente, troppo elementare. E troppo stupido. (http://popimmersion.blogspot.com)
Articolo del
21/05/2007 -
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