Merda nella carne. Troppa merda. L’hanno scovata degli studenti di biologia durante un’esercitazione universitaria. Bisogna che qualcuno della Mickey’s Food Restaurants schiodi il culo dalla sua poltroncina californiana. E vada a controllare cosa diavolo sta succedendo a Cody – grigia città immaginaria della low-class Usa – dove ha sede lo stabilimento che acquista, macella e spedisce in tutta America la carne che farcirà il mitico Big One, fortuna dell’azienda di fast food. Alter ego paro paro di MacDonald’s e compagnia panineggiante.
A muoversi – e a muovere il punto di vista dello spettatore – è il vice-presidente Marketing (Greg Kinnear). La docu-fiction sulle malefatte dell’industria alimentare di massa statunitense segue però un doppio-binario. Da una parte, appunto, la trasferta dell’incaricato. Prima scettico. Poi convinto. Infine, complice di un sistema mostruoso. Cioè che non vede. Ciò che non gli mostrano nel costruito tour aziendale. Ciò che non saprà mai del puzzo di quel gigantesco inferno animale. Ciò che intuisce e, però, sceglie di coprire. Dall’altra, le vicende di un manipolo di clandestini messicani – bravissima Catalina Sandino Moreno - che compongono la forza lavoro dell’azienda di Cody: quello che vedono e che devono far scomparire – scelgono i tranci peggiori per gli hamburger, trascorrono ore a pulire ettolitri di sangue, interiora e feci. I sacrifici che compiono. Le nefandezze che debbono subire, sia fisicamente – stupri, prostituzione, infortuni – che psicologicamente, vista l’esperienza nello schifosissimo stabilimento.
C’è di tutto, dentro “Fast Food Nation”. Distese di bovini semi-immobili. Sangue, merda e intestini a volontà – in contrasto con l’assurda asetticità delle procedure di vestizione. Decapitazioni animali. Non essendo un documentario – difficile superare “Super Size Me” di Morgan Spurlock, nel quale il regista s’è messo personalmente in ballo giocando col suo colesterolo – ma, piuttosto, un interessante incrocio fra plot giornalistico e realizzazione tipicamente cinematografica, la pellicola di Richard Linklater gioca sulla narrazione stretta e sulla denuncia palese. Impersonata dalla scelta della giovane Ashley Johnson, cassiera del Mickey’s di Cody, di prendere coscienza, lasciare il suo posto e passare dalla parte dei contestatori.
Il film tiene. E’ ben fatto, perché Linklater è bravo e la presenza di alcuni camei notevoli (perfetto Bruce Willis e credibile Kris Kristofferson) lo sostiene. A volte s’infogna un po’ nelle vicende dei messicani, e perde lo slancio di denuncia – anche se lo fa per variare le tonalità di un’unica questione. E più che Michael Moore, c’è al caparbietà di Oliver Stone - ma andiamoci piano. Alla fine, le sequenze girate nel mattatoio restano mostruosamente magnifiche per il coraggio con cui sono montate e per la fotografia, che rende quei tranci di bovino le icone incolpevoli di un’epoca fatta di cibo scadente, persone malate e società arroganti ed avare.
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Articolo del
20/08/2007 -
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