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Pupi Avati è un regista italiano. Nonostante la tautologia, è bene che sia chiaro in partenza, visto che il film in questione, Il nascondiglio, è invece un film molto poco italiano. Anzitutto perché girato interamente negli Stati Uniti, con un cast americano che annovera tra le sue fila Burt Young, il celeberrimo Paulie della saga di Rocky, Treat Williams più noto per la serie tv Everwood che per i suoi ruoli in C’era una volta in America e 1941 allarme ad Hollywood, pronti a spalleggiare la nostrana protagonista Laura Morante. È un film poco italiano, poi, perché si tratta di un thriller condito da toni horror e in Italia non se ne vedono spesso di pellicole così, escludendo il figlio d’arte Lamberto Bava. Che però, a onor del vero, del padre ha ereditato solo il cognome. Partendo da queste premesse, il giudizio su un lavoro come Il nascondiglio non può che risentire di una certa sintonia di fondo, una stima nei confronti di un tentativo di portare sullo schermo un genere in cui fino a qualche anno noi italiani potevamo considerarci maestri. Tra i cult ecco spuntare proprio La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976), Zeder (1983) e Balsamus, L’uomo Di Satana (1968), con cui proprio Pupi Avati fece la sua comparsa in un panorama cinematografico italiano ancora vergine dai futuri stupri adolescenziali mocciani. Un cinema che vedeva Bava Senior sfornare capolavori horror che hanno fatto scuola in tutto il mondo (Tim Burton…). Che cosa è rimasto di quel cinema (italianissimo) oggi?
Una donna di origini italiane esce da un ospedale psichiatrico statunitense che l’ha ospitata per quindici anni a seguito di uno shock dovuto al suicidio del marito. Per rifarsi una vita decide di aprire un ristorante italiano a Devenport, Iowa. Il luogo prescelto è una casa in collina, la Snakehouse, famosa in tutta la zona per essere stata teatro di un massacro verso la fine degli anni '50: l’uccisione di tre donne e la scomparsa di altre due giovani di cui nulla si è più saputo. Una strage di cui nessuno vuole parlare e su cui ancora non si è fatta luce. Nonostante la buona volontà della protagonista e la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, lo spettro della follia tornerà prepotente quando la casa, ritenuta disabitata, rivela di avere un altro "inquilino". Avati trasferisce la campagna padana in una periferia a stelle e strisce per raccontare una storia ricca di rimandi e citazioni. In cui la suspense non manca e il ritmo è dilatato per lasciare spazio alla tensione dell’ambientazione. La casa in collina, un atroce omicidio e una protagonista pseudo-folle sono gli ingredienti tipici di un film di genere. E sta proprio nell’ambientazione la parte migliore della pellicola, che ha qualche sottotrama eccessiva (l’amore assurdo di Young per la Morante) e si perde spesso in un’indagine fin troppo semplice e noiosa per i canoni odierni: non si fatica a prevedere il finale già dalle prime scene e la conclusione risente di una pesante carenza di alternative. Non può che andare in una direzione.
Detto questo, Il nascondiglio va però elogiato per due ragioni: il coraggio nel realizzarlo e l’abbondante quantità di tensione e spavento, garantita anche da un buon lavoro sul suono. Avati, in una recente intervista, ha affermato che per imparare ad essere registi completi non ci si dovrebbe fossilizzare su di un solo genere ma esplorare e sperimentare diverse forme cinematografiche, anche le più fantasiose e sottovalutate. Un consiglio che vale oro per un cinema italiano in caduta libera.
Articolo del
23/11/2007 -
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