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”Come siamo potuti arrivare a questo punto?”. Questa una delle prime battute pronunciate da Giada, interpretata da Cristiana Capotondi, intenta ad analizzare un infimo show televisivo per uno studio universitario. Domanda che si dovrebbe porre la maggior parte degli spettatori di quest’imbarazzante pellicola che cavalca l’onda dei teen movie italiani, esordio nei lungometraggi del trentacinquenne Volfgango De Biasi, già autore di un episodio di Esercizi di Stile nel ’96.
Subito la trama di base si dimostra essere il tripudio del cliché: Giada, bruttina e secchiona, dà ripetizioni private a Riccardo, ricco e piacente, e finisce con l’innamorarsene. Per riuscire a competere con le altre avvenenti ragazze, gioca la carta del restyling estetico – d’altronde molto di moda, anche in politica, di questi tempi. Insomma, la favola del brutto anatroccolo che in men che non si dica diviene uno splendente cigno, mescolata con un pizzico di Cenerentola e contestualizzata nella capitale italiana.
Il lavoro che ne esce è una matassa di stereotipi e luoghi comuni – lei tutta sostanza, lui tutto apparire – che sembra addirittura voler riflettere sullo stato attuale dei valori/disvalori nella società odierna tramite pillole pseudo-filosofiche da Baci Perugina e nozioni confuse di comunicazioni di massa – andatela a studiare seriamente, la comunicazione. La sceneggiatura, oltre a delineare una vicenda già vista e dimenticabile, non si preoccupa nemmeno di dare uno spessore alla coppia dei bellocci protagonisti. Per non parlare dei personaggi secondari. Uno su tutti, Hermes - il fautore della rinascita esteriore di Giada: spudorata macchietta modaiola un po’ fatina magica, un po’ genio artistico, un po’ Malgioglio. Le situazioni sembrano susseguirsi senza una logica consequenzialità nella peggiore tradizione videoclippara, giustapposte alla rinfusa, come la scena di sesso fra i due protagonisti, ingiustificata e inverosimile. O il motivo che spinge la top model di turno ad aiutare la disperata Giada. Il tutto condito dalle solite discoteche, i soliti party, le solite auto sportive, le solite sniffate, le solite canzoni. Una particolare notazione va all’abbigliamento di Vaporidis/Riccardo: un assortimento di camicie da far invidia alla cupola dei narcotrafficanti latino-americani. Lo stile di regia è di una piattezza disarmante, ma risulta superfluo ricercare una traccia stilistica in una pellicola che almeno non ha pretese se non quella di scucire soldi a ignari ragazzini sbavanti. Finale scontato.
Alcune domande sorgono spontanee: se la Capotondi non è ancora espolsa in più di dieci anni di carriera, ci sarà un motivo? E Perché Vaporidis in ogni suo film si trova a sostenere esami? Evitiamo di rispondere. Che è meglio.
Ormai parlare di crisi nel cinema italiano suona come un modo di dire, come asserire che non ci sono più le mezze stagioni. Ma l’ombra di opere del genere è troppo grande perché faccia trasparire la luce di chi il cinema lo sa ancora fare. Come tu mi vuoi non può essere considerato un filmetto romantico per quattordicenni alla stregua dei vari Tre metri sopra il cielo. Piuttosto, una pellicola da vedere con gli amici per farsi due risate. Il bello – o il brutto, a seconda dei punti di vista - è che non si ride per il film, ma del film.
Articolo del
26/11/2007 -
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