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Un respiro ed è la passione la nota dominante in Breath, ultimo lavoro del coreano Kim Ki Duk. Continua la sua incessante ricerca del sentimento umano. La sua sembra essere tout court l'immagine del simbolico, nel tentativo di raggiungere una verità essenziale quanto primaria. Pertanto, questa volta la storia sembra andare forse troppo oltre...
Tra le trame dei personaggi si intessono l'amore, la gelosia, lunghi silenzi misti a una forte incomprensione. Una donna stanca del tradimento del marito si rifugia in un amore impossibile con un condannato a morte: storia a tratti bizzarra, dove emerge anche una sottile vena di ironia.
Il mondo che il regista coreano dipinge sembra annaspare nel freddo di una gelida provincia, intriso di una spasmodica stasi invernale. Nell'attesa, probabilmente - ma si tratta di un'attesa folle, portata ai limiti del possibile. Ed è su questa strada che si incammina Kim Ki Duk. Non ci sono limiti - pare suggerirci - mentre con la telecamera riprende l'incontro di due sconosciuti in cerca della salvezza. Dietro all'intrigo si cela il mistero, ciò che non si può spiegare ma solamente vivere. La filosofia regge, ma non altrettanto la storia.
Film senza dubbio ricco di fascino ma che, appunto, a tratti si perde. Si perde perché vuole andare troppo oltre, troppo lontano. Il simbolismo che si viene rappresentando poggia su basi estremamente semplici: si parla della vita, e null'altro. Ma poi si complica, perde il ritmo, annaspa nei passaggi.
L'immagine scarseggia a livello estetico, diventa frettolosa per divincolarsi nell'inaccessibilità. Manca la leggerezza che si celava in Ferro 3, la limpidezza di Primavera, estate autunno, inverno e ancora primavera. E in fin dei conti il filo conduttore si dissipa, seguendo un cammino che dà l'impressione di essere semplicemente Troppo con la T maiuscola.
Kim Ki Duk è un regista che non si è mai posto limiti, questo è indubbio. E per tanti versi è ammirevole. Non cerca l'incanto, quanto piuttosto il re-incanto. Nel suo lavoro è evidente una necessità di proporsi al pubblico con un codice espressivo estremamente personale, ricco di sottigliezze e venature intimistiche. Il suo è un cinema d'autore per antonomasia, dove il mercato dei grandi colossi della produzione faticano a ritrovarsi. Ma questa volta ha voluto semplicemente superarsi, e nel farlo ha saltato un gradino.
Se c'è passione, se c'è gelosia, se c'è l'amore, manca tuttavia la vita, una sentina leggera che passa dall'opera al suo spettatore, per farla propria, cigolante del respiro, prepotente quanto insaziabile. È come se ad un tratto avesse messo una barriera, e le emozioni che passano dallo schermo alle poltrone vengano come dire filtrate da una coltre ibrida di intellettualismo e voyerismo.
In conclusione, se è vero che si tratta di Kim Ki Duk - e non di uno qualunque - è altrettanto vero che anche i grandi possono avere le loro piccole cadute di scena. Il resto lasciamolo cogliere alla posterità, a noi basterà solamente un'immagine: Breath.
Articolo del
03/12/2007 -
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