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Prima venne una coppia di ragazzi sperduta nel deserto. Poi l’incursione nella drammatica realtà di un’America armata fin dal liceo. Infine, la testimonianza degli ultimi giorni di vita di un’ipotetica – ma neanche troppo – rock star. Ora Gus Van Sant sceglie il mondo degli skater per un’ulteriore riflessione sul tema dell’adolescenza, al quale è tanto affezionato. Prendendo come punto di partenza il romanzo omonimo di Blake Nelson, datato 2006.
Alex è uno skater sedicenne di Portland, che un giorno si lascia convincere da un amico ad andare a Paranoid Park, terreno di confronto underground per i giovani con la loro stessa passione. Accidentalmente si trova coinvolto in un caso di omicidio, trasformando in tragedia quella che sembrava essere una prova di maturità. Van Sant decide di prelevare i suoi giovani attori dalla strada, o meglio da internet, tramite un casting su MySpace. Preferendo ragazzi non professionisti, come già era accaduto per Elephant, dove aveva pescato direttamente nelle scuole.
Ragazzi che sembrano essere più giovani dei sedicenni che si trovano ad interpretare. Ragazzi che rappresentano una gioventù praticamente priva di riferimenti, anzitutto familiari. Ragazzi che sembrano persino troppo giovani per guidare, ma che si ritrovano a percorrere decine di miglia per inseguire un piccolo sogno, scappando clandestinamente dal quotidiano.
“Nessuno è pronto per Paranoid Park”. Con queste parole prosegue l’opera di convincimento perpetrata dall’amico del protagonista, quasi per aumentare il desiderio di sfida connesso all’imbarcarsi in una simile avventura. Una piccola aspirazione da soddisfare, che funge da portale verso il mondo esterno. In realtà l’adolescenza analizzata e mostrata dal regista di Louisville è acerba anche sotto molti altri aspetti. Vedi ad esempio la scena del rapporto sessuale tra il protagonista – l’ottimo esordiente Gabe Nevins – e la fidanzatina. Che a mancare del tutto siano gli adulti come solido riferimento, lo si capisce già dalla composizione del cast. Quasi esclusivamente formato da ragazzini, tranne il detective e la coppia di genitori.
Van Sant con la sua macchina da presa ama stare addosso agli attori. Li segue costantemente, rendendo il pianosequenza il suo marchio di fabbrica più evidente. L’Autore (d’obbligo l’uso della maiuscola) sceglie di filmare in due formati diversi: 35 mm e Super 8. Sfruttando per la prima tecnica di ripresa Christopher Doyle, fidato direttore della fotografia di Wong Kar-Wai. Mentre per la seconda Kathy Li, già collaboratrice di La Chapelle. Le immagini sono sapientemente sonorizzate da omaggi felliniani con arie di Nino Rota, mischiate con un paio di brani di Elliott Smith e alcuni pezzi elettronici. Oltretutto viene fatto un abbondante uso dello slow motion per proporci le leggiadre evoluzioni dei ragazzi belli e dannati armati di tavola a quattro ruote.
Se si poteva considerare Gerry come il primo episodio di una trilogia incentrata sul mondo dell’adolescenza (e sulla morte) composta poi da Elephant e Last Days, ora si potrebbe parlare di quadrilogia. L’aggiunta di questo capitolo, premiato allo scorso Festival di Cannes in occasione del 60° anniversario, non fa altro che continuare un percorso tematico e stilistico dalle radici ben lontane. Confermando le aspettative. Uno dei significati del titolo Elephant, si riferiva al fatto di avere un enorme problema rimasto completamente ignorato e privo di soluzione. Come avere, appunto, un elefante in soggiorno senza rendersene conto. Sono passati quattro anni e tale assunto rimane ancora più che valido.
Articolo del
15/12/2007 -
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