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Navigando in cerca di opinioni riguardanti Nella valle di Elah, mi sono imbattuto in molte recensioni (anche di critici assai titolati) stranamente simili. Affini non tanto per contenuto o per uniformità di giudizio. L’elemento comune, piuttosto, è lo svelamento del finale, o meglio, della scena finale. Capita spesso e volentieri, ma in questo caso ritengo sia un vero e proprio scempio. Paul Haggis ha scritto e diretto un film contro la guerra, per raccontare di come la guerra prosegua oltre il campo di battaglia. I ragazzi che partono, insomma, non sono gli stessi che tornano. Un cambiamento talmente radicale da mutare l’essere umano nella sua essenza.
Hank Deerfield è padre, ex polizia militare, il cui primo figlio è morto in azione. Il secondo risulta rientrato dall’Iraq, ma irreperibile dopo la breve licenza concessa ai militari al ritorno. Hank crede di conoscere il figlio, lo ama tanto da sentirsi in dovere di mettersi sulle sue tracce prima, e da cercare di venire a capo di una morte pressoché inspiegabile poi. Amore o rabbia, la linea che li distingue è labile. Hank crede di sapere. Quello che resta di suo figlio però, corpo fisico e memoria, è qualcosa di completamente differente. Non più un “bravo ragazzo” al servizio del suo paese, ma un essere senza più vita, sordo ai sentimenti, se non quello della paura. La guerra rende alla patria persone deviate, senza rimorso e senza speranza. Persone giovani che vedono la vita rovinarsi e cambiare. Famiglie private di padri, madri senza più un figlio. Niente american dream, nessun futuro. Hank e sua moglie (Susan Sarandon) lo scoprono a loro spese. Piena coscienza di aver sollevato un sasso troppo grande, di combattere un mulino a vento. Giusto come Davide contro Golia, l’uno di fronte all’altro… giù nella valle. Il patriota Hank, americano legato alla bandiera come ad un figlio, è di fronte alla verità: quella di un’ America che non si preoccupa di salvare i suoi figli, ma li usa e li getta come un panino da fast food.
Inutile parlare di Bush e della politica estera di questa amministrazione, non è questo quello che interessa. La guerra come la pace è un’esperienza universale, che va oltre gli Stati Uniti e l’Iraq. Ciò che serve è prendere coscienza delle responsabilità morali che la guerra comporta. Ecco allora il personaggio di Charlize Theron, poliziotta frustrata che vive sola con il figlio in un sistema corrotto, ma che trova occasione di riscatto nel semplice gesto di mettersi al servizio del prossimo, per una volta, in un mondo dove scontrarsi è l’unico modo per capirsi (Crash..).
Finalmente possiamo parlare di opera d’arte per definire un film, e non di polemica, marketing o divertimento. Perché trasmette qualcosa e lo fa al meglio. Perché tutto non si esaurisce nella visione, ma qualcosa rimane dentro. Per giorni. Per questo non capisco perché svelare un elemento così importante come la fine: perché impedire di vivere il film fino in fondo? Paul Haggis scrive e dirige. Il resto lo fa Tommy Lee Jones con una prova incredibile e indimenticabile per intensità e bravura. Un lavoro in sottrazione che lascia intendere davvero un mondo senza parole. Cornice tecnica come sempre di altissimo livello. La speranza è che gli americanissimi premi Oscar tengano conto almeno della sceneggiatura. La verità è che l’orgoglio spesso è più forte della ragione. Capolavoro.
Articolo del
17/01/2008 -
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