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Siamo nel 1942. A Shangai (Hong Kong, nella seconda parte), durante l’occupazione giapponese della Cina, un gruppo di studenti attivisti, membri di un laboratorio teatrale, organizza un attentato contro un collaboratore del governo di Wang Jingwei. Per farlo, si serve di una giovane amica e aspirante attrice col compito di sedurlo e adescarlo. La povera Wong Chia Chi intraprenderà dunque una storia violentemente morbosa con la propria vittima designata, durante la quale i ruoli si invertiranno in maniera sempre più repentina e pericolosa.
Con Lust, Caution (permettetemi di conservare il titolo originale accantonando l'indecente e ruffiana traduzione italiana) Ang Lee prosegue sulla strada dello scandalo, sollevando un secondo polverone mediatico a due anni di distanza da Brokeback Mountain. E, come accaduto con il film precedente (tre oscar su un totale di otto nomination), arricchisce di un altro prestigioso riconoscimento un curriculum ormai di tutto rispetto. Una scelta quanto mai discussa (e tuttora discutibile), considerando anche che molti illustri esponenti della critica internazionale hanno indicato nel diretto concorrente Cous Cous una sorta di trionfatore “morale” della sessantaquattresima edizione della Mostra del cinema di Venezia.
Eppure questa undicesima opera del regista taiwanese non manca di riservare qualche sorpresa, pur non elevandosi certo al rango di capolavoro. Si tratta, per così dire, di un film “camaleontico”, almeno nella prima metà. Un melodramma storico nel quale la traccia narrativa principale viene declinata in maniera imprevedibile, provocando inizialmente nello spettatore un piacevole disorientamento. I piani temporali si intrecciano vorticosamente, incontrandosi (e scontrandosi). Alcuni percorsi vengono accennati e immediatamente troncati, cosicché diventa complesso, ma intrigante, mettere a fuoco le linee guida della storia vera e propria: questo fino a metà film circa. Prima, quindi, che le sorprese finiscano.
A una prima parte fatta di sfumature più o meno raffinate (spesso la tipica impostazione barocca di Ang Lee pare fine a se stessa) ne segue una seconda molto più scontata, nella quale emerge soprattutto la vena sensazionalistica del pluripremiato regista. La voglia di scandalizzare finisce così per appiattire dei buoni presupposti, manifestandosi in numerose e prolungate sequenze di sesso (delle quali forse solo la prima ci appare come veramente necessaria), che non fanno però altro che conferire una certa ripetitività al film. Le morbose banalità (tra le quali una stimolazione sessuale ottenuta tramite rievocazione di macabre torture) finiranno purtroppo per moltiplicarsi trascinandosi fino a un parziale risollevamento finale. A risentire di queste esagerazioni è soprattutto la credibilità del rapporto fra i due protagonisti (in teoria il fulcro del film), piegato alle esigenze di inserire le già citate chicche “trasgressive”.
Ci si chiede così in che misura queste sterili provocazioni, perlopiù gratuite, riescano a fare presa su una parte sul pubblico (che di solito riempie le sale interessate, anche se su piccola scala). E dall'altra, in maniera forse più preoccupante, su una giuria di addetti ai lavori. Semplicemente perché, dopo averlo spogliato delle componenti più superficiali, ivi compresa un'astuta campagna promozionale, un film riuscito solo a metà dovrebbe essere considerato troppo poco per il nostro Leone d’oro.
Articolo del
23/01/2008 -
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