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A volte basta semplicemente cambiare l’interpretazione di una frase, quella del titolo, e cambia l’intero impianto tematico e ideologico di un’opera. E dall’orrore letterario senza speranza... si arriva (quasi) ad un happy-ending cinematografico.
Il nuovo blockbuster hollywoodiano prende il titolo pari pari dal romanzo-simbolo di Richard Matheson, scrittore considerato un pilastro della letteratura inquietante contemporanea, un filone che potremmo far risalire da Poe e Lovecraft e far arrivare a Dick e King. La modernità ha portato con sé un’inquietudine, un’angoscia che non abbandona mai l’uomo contemporaneo: e mentre Asimov e altri scrivevano di astronavi e imperi galattici, Matheson firmava i suoi più devastanti capolavori letterari negli stessi anni (i Cinquanta), con protagonisti uomini che si ritrovavano, per vari motivi, in situazioni paradossali e disperate. Tra di essi, Io sono leggenda.
Si può immaginare solo qualcosa di peggio nell’essere l’ultimo uomo rimasto sulla Terra: essere l’ultimo uomo su un pianeta popolato interamente da vampiri. Robert Neville (un sempre più serio Will Smith), ex medico militare, ha scelto di restare in una New York deserta e in quarantena per trovare una cura alla condizione “vampiresca” nella quale si ritrova presumibilmente l’intera razza umana. Una condizione contagiosa scaturita, con un effetto collaterale inaspettato, da una miracolosa cura per il cancro creata anni prima. Ma il regista Francis Lawrence, già autore del demoniaco e fumettistico Constantine, fornisce già fin troppe spiegazioni, peraltro sconosciute al testo letterario. Si può spiegare l’inquietudine? Nel libro Neville è solo, punto e basta, e braccato da frotte di succhiasangue, che lo desiderano e nello stesso tempo lo temono come un “diverso”.
Qui sta la deviazione-chiave tra il libro e il film, nell’interpretazione del titolo: Io sono leggenda significa “Io sono un animale mitologico, sono l’ultimo della mia specie in un mondo popolato da altre creature”. Visto da Lawrence Io sono leggenda diviene invece “Io sono un eroe, sono l’uomo che è rimasto da solo a New York, e forse nel mondo, per cercare una cura al vampirismo globale e salvare l’umanità”.
Il film si trasforma così nella solita parabola sulla Scienza, che può distruggere nelle mani sbagliate ma anche rimediare ai propri sbagli con la figura dello Scienziato Illuminato, afflitto da sensi di colpa, come il buon Neville/Smith, che è deciso a mettere una pezza sul fallimento dei suoi colleghi. È alquanto ovvio dunque che, pur conservando una certa parte di cupezza mathesoniana e un senso di disperazione che poche altre pellicole del genere hanno visto, il film finisca per giocare tutte le sue carte nel superbo impianto tecnico: le ambientazioni spettacolari che abbondano nella prima metà della storia, e che restano memorabili, soprattutto su grande schermo. Una New York deserta e semi-distrutta (magistrali le sovrapposizioni digitali alla vera N.Y.), dove le piante (Times Square è divenuto una savana) e gli animali (mandrie di cervi, ma anche leoni, ex inquilini dello zoo) scorrazzano ovunque reclamando ciò che un tempo era dell’uomo. Neville ha a disposizione niente di meno che un’intera città come suo territorio, dalle videoteche per noleggiarsi i dvd e scacciare la solitudine dialogando con dei manichini, alle Avenues della Grande Mela dove correre in auto e cacciare cervi col fucile. Meno convincente resta la seconda metà: gli scontri con i vampiri (creati da un relativamente deludente digitale), le notti passate in laboratorio a sperimentare, i flashback alla Lost che spiegano un po’ futilmente la storia precedente il cataclisma. Ma soprattutto un finale eroicamente disperato (dove nasce la “leggenda” del titolo) che vorrebbe ridare speranza all’umanità, quando invece sarebbe servito un po’ di insano e inquietante pessimismo mathesoniano per scuotere davvero uno spettatore impigrito da simili hollywoodiane routine.
Articolo del
28/01/2008 -
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