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Christopher McCandelss (Emile Hirsh) è un giovane promettente, laureato a pieni voti e di buona famiglia. Giunto al termine del suo cammino universitario decide di tagliare i ponti con la sua vecchia vita per intraprendere un lungo viaggio in solitudine verso l’Alaska. Niente soldi o cellulare, nessuna carta di credito né un recapito. Un viaggio di tre anni nel cuore degli Stati Uniti e delle persone che incontrerà lungo il percorso. Fino a trovarsi da solo, in mezzo alle terre selvagge.
Chris è un ragazzo di ventitre anni. Ed è veramente esistito: nel 1992 ha davvero fatto tutto quello che noi oggi, a distanza di sedici anni, possiamo vedere sullo schermo. La prima impressione è quella di essere di fronte a qualcosa di importante. Quello che vedo non è un semplice road movie. Per quanto naturale venga pensare a una storia alla Kerouac, con la sua america in autostop, quello che mi viene in mente è Una storia vera di David Lynch. Una storia di vita, di ricerca e di incontri. Il protagonista è un ragazzo che non sa cosa vuole, che parte alla ricerca di se stesso e di un significato che l’ipocrisia della vita di ogni giorno non può dare. Bisogna ricominciare da zero e Chris lo fa nel più estremo dei modi, intraprendendo un viaggio verso l’Alaska, terra selvaggia di natura incontaminata. Parte accompagnato da molti libri e da mille convinzioni, che mano a mano andranno sgretolandosi. L’importanza del viaggio, lo scoprirà, non è più la necessità di raggiungere una meta, ma sta negli incontri fatti lungo la strada. Una coppia di hippie, un vecchio solo, un agricoltore sgangherato. Come in Una storia vera vediamo una persona mettersi in gioco, la persona sbagliata nel posto giusto: un vecchio su di un tosaerba e un ragazzo solo di fronte alla vastità dell’America. Ed è forse questa la vera forza della storia: la voglia di buttarsi, di ricominciare e di ricercare la felicità senza compromessi. Chris cambia nome, si fa chiamare Alex Supertramp, scala montagne e si lancia lungo i torrenti, caccia selvaggina e pensa, pensa davvero tanto. L’idea è quella di non avere nessun contatto perché non è nei rapporti che sta la felicità, o nell’iposcrisia dei soldi. Si nasce soli e si muore soli. Niente famiglia, nessun amore. Il segreto è nella natura, nel mondo.
Sean Penn si è innamorato di questa storia più di dieci anni fa dopo aver letto il romanzo di Jon Krakauer tratto dalla storia vera di Christopher McCandless. Il tempo trascorso è servito ad ottenere i diritti necessari alla produzione del film, per una realizzazione durata circa otto mesi e che ha visto la troupe confrontarsi con ambienti estremi ed ha richiesto a Emile Hirsh di arrivare a perdere circa 20 chili durante le riprese.
Quel che ne esce è un film che ricorda molto gli anni Settanta. Per la storia che parla di libertà assoluta, ma anche per la tecnica, la bellissima fotografia e il montaggio. Una messa in scena impeccabile e una regia che conferma il talento di Sean Penn, che decide di mostrarci un’America genuina e sconfinata, con i suoi miti (la frontiera… ) e le sue contraddizioni, dove un ragazzo può prendere e sparire e, senza un soldo, sopravvivere per tre anni. Ad accompagnare le immagini c’è la voce di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam ed autore delle meravigliose canzoni, scritte dopo una prima visione del film. Canzoni che non si limitano a decorare ma che commentano le immagini, che fanno parte della scena. I pensieri di Chris che prendono vita. A chi non è mai capitato di pensare, anche solo per un secondo, di lasciare tutto e partire? Eppure non è nella solitudine che si trova la felicità, ed è questo l’insegnamento più importante che Chris vuole trasmettere - e che capirà a caro prezzo - cioè che la felicità è reale quando è condivisa. Si nasce soli e si muore soli, ma la vita vale la pena di spenderla con gli altri e per gli altri. Una frase tanto semplice quanto bella. Un film tanto semplice quanto bello.
Articolo del
30/01/2008 -
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