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Rob sta per partire per il Giappone per una nuova esperienza lavorativa. La sera in cui i suoi amici organizzano, a sorpresa, una festa d’addio, quella che pare essere una violenta scossa sismica colpisce Manhattan. Mentre i telegiornali annunciano che l’isola è sotto attacco, qualcosa di mostruoso e ignoto comincia a decimarne la popolazione.
Il grande elemento di rottura (e fortunatamente anche di modernizzazione) di questo Cloverfield, rispetto ad un filone catastrofico parzialmente in discesa, si identifica con la sua messa in scena: come ampiamente pubblicizzato, le immagini del film vengono catturate interamente da una videocamera amatoriale. Attraverso di essa, appartenente a uno dei protagonisti, assistiamo così (“in diretta”) all’irrompere dell’orrore puro e inspiegabile in un iniziale contesto di tutt’altro genere. Dal quale erano emersi, delineati in maniera essenzialmente efficace, quei caratteri destinati poi ad accompagnarci per il resto del film. Sia però chiaro che, nonostante alcuni sproloqui mediatici, The Blair witch project è stato considerato troppo frettolosamente un’ingombrante fonte d’ispirazione: gli elementi comuni fra i due film sono infatti minimi e in gran parte trascurabili. Ancora una volta, a giudicare anche dagli ottimi incassi in USA (se rapportati a un budget minimo sfruttato alla perfezione), J.J. Abrams (Alias, Lost) confeziona un sicuro successo, oltre che un prodotto più che valido.
Se Cloverfield non può convincere pienamente in termini di verosimiglianza è per “colpa” di un operatore che affronta qualsiasi peripezia con la telecamera quasi sempre in posizione e ben a fuoco, più che di un mostruoso essere dalle dimensioni ciclopiche. Eppure, fermo restando che lo spettatore apprezza non poco questo sacrificio, il dato passa in secondo piano di fronte a sessanta minuti trascorsi in uno stato permanente di smarrita tensione. Il film punta in maniera intelligente su una costante presenza che però raramente si palesa (concedendo solo il finale al monster movie vero e proprio), accrescendo esponenzialmente la paura dei protagonisti (e la nostra ansia).
La scrittura riesce a mantenersi in equilibrio fra momenti di stasi e improvvise esplosioni drammatiche, interpretate da attori sufficientemente convincenti. L’andamento complessivo è inoltre impreziosito da un convincente espediente narrativo che fa da cornice alla vicenda vera e propria.
In definitiva si tratta di un’esperienza alla quale il cinema restituisce tutta la propria vertiginosa efficacia, anche al prezzo di qualche giramento di testa (non esagero, gli interessati sono stati avvisati). Ma si tratta anche (e sorprendentemente) di uno dei pochi film in cui non diventa forzato ritrovarci a parlare di (post) 11 settembre, mentre alcune inquadrature ci riportano alla mente tragici resoconti amatoriali. Un riferimento che nel film si evolve costantemente, materializzandosi attraverso una storia fatta di solidarietà e sacrificio estremo. Oltre che di orrore e morte.
Articolo del
04/02/2008 -
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