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In una Londra grigia, pozzo fetido e buco del mondo, fa il suo ingresso Sweeney Todd, il barbiere. Un uomo con in testa la vendetta per una vita rubata, una moglie e una figlia perdute e tanti anni di amarezza. Il giudice Turpin ne è il responsabile e dovrà essere lui a pagare. Mrs. Lovett la spalla ideale per il macabro proposito.
Seguo Tim Burton da molto tempo. Direi abbastanza da poter dire che per questo film mi aspettavo un cambio, una svolta, qualcosa di diverso. L’idea di un musical tinto di horror mi è sembrata una bella trovata. L’attesa è cresciuta e ora, finalmente, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Del Tim Burton arcinoto ormai anche ai più, è rimasto ben poco. Un buon segno. La voglia di bontà, di tetra fantasia, ha lasciato il posto alla cupezza più profonda, a un bianco e nero disilluso e cinico che non lascia spazio alla felicità. Non di gioia parla questo film, ma di vendetta.
Nell’ennesima favola burtoniana, il povero Benjamin Barker (Johnny Depp) muta in Sweeney Todd, la vita diventa morte. Nessun rimorso, mai perdonare, mai dimenticare. L’idea del musical stride. Come può funzionare? Come possiamo vedere cantare di morte quando abbiamo ancora negli occhi la frivolezza anni ’50 di Hairspray o l’amore beat di Across the Universe? Eppure è questa la trovata migliore del film. La sensazione che spiazza. Il canto aumenta il dramma, la passione e l’emotività. Finalmente non ci troviamo di fronte a siparietti e stacchi di ballo, come siamo stati abituati fino ad oggi. Il dialogo cantato regge l’azione, l’intera pellicola viene suddivisa in atti circoscritti e i balletti censurati. Sweeney scende per strada, nella scena migliore del film, e reclama la sua vendetta. Lo fa in mezzo alla gente, nella piena apatia di un mondo senza giustizia. La giustizia piegata al volere personale dal perfido giudice (Alan Rickman) e dal suo vile scagnozzo (Timothy Spall). Se la vendetta è un piatto che va servito freddo, Sweeney invece la impasta e la cucina al forno, nei ributtanti pasticci della signora Lovett (Helena Bonham Carter). Una coppia di demoni canterini, che a mali estremi oppone estremi rimedi, lontana anni luce dal duo McGregor-Kidman.
Non ci resta che godere di questo disincanto, di questo ritrovato amore per l’oscurità non più edulcorata, ma grondante sangue. Non un film su di un diverso (Ed Wood, Edward mani di forbice, La fabbrica di cioccolato), ma finalmente un film diverso. Ritengo Big Fish uno dei capolavori irripetibili del cinema eppure era da tempo, dalla rottura con la produttrice storica Denise DiNovi, che Burton non si lasciava andare in questo modo. Una festa macabra ed efficacemente truculenta. Una ventata di novità per un autore che sta dando prova di inarrivabile bravura, di singolare autonomia e di chiarezza di intenti.
Dal punto di vista tecnico Burton ci vizia come sempre, circondandosi di collaboratori fidati e di immenso talento. Bella la fotografia desaturata all’estremo di Dariuz Wolski. Impareggiabili le scenografie del duo da Oscar Ferretti-Lo Schiavo. Perfetti i costumi di Colleen Atwood e il montaggio di Chris Lebenzon, che rivedremo presto in collaborazione con Burton per il suo prossimo film, Alice nel paese delle meraviglie. È la regia però l’elemento fondamentale: grande prova di versatilità e rispetto del genere, visto sotto l’occhio tutto particolare di Burton.
Ennesima conferma del perfetto connubio Burton-Depp: i due si trovano a memoria. Menzione speciale per lo spassoso Sasha Baron Cohen nei panni del barbiere italofilo Adolfo Pirelli. Tornerò a vedere il film diverse volte, sono certo riuscirò a scovare dettagli e finezze che non balzano subito all’occhio. Tornerò a vederlo perché lo devo capire e apprezzare ancora di più. Se lo merita.
Articolo del
03/03/2008 -
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