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Le vivaci note saltellanti dell'Allegro giocoso dal Concerto per violino di Johannes Brahms concludono le due ore e quaranta minuti dell’ultimo film di Paul Thomas Anderson, Il petroliere : un'esperienza intensamente drammatica, in cui una scintillante e celebrativa musica del tardo Ottocento viennese stride beffardamente fuori luogo nelle nostre orecchie.
Del resto l'intero film è all’insegna di una grande dissonanza programmatica, e non solo per la disturbante colonna sonora di Johnny Greenwood dei Radiohead: è un'opera dal respiro epico e nello stesso tempo minimalista, imperniata su un personaggio larger-than-life che non è affatto un eroe positivo, un fondatore di valori come epica richiederebbe. Il protagonista Daniel Plainview è un petroliere di un secolo fa: avido, misantropo, invidioso e competitivo. Un personaggio intriso di una fosca grandeur che lo rende degno compare di un certo Charles Foster Kane di wellesiana memoria. Un uomo sgradevolmente moderno, sentimentalmente arido come il deserto della California che stupra continuamente per accrescere le sue ricchezze, ossessionato dal desiderio di primeggiare, e potersi ritirare imbattuto nel suo Xanadu fatto di alcool e amara solitudine. Se Plainview dovesse essere un eroe epico, “fondatore” di un qualche valore, potremmo dire che fonda l’intraprendenza imprenditoriale americana della peggior specie.
In questa monomania petrolifera è quindi facile vedere il protagonista come un'epitome della spasmodica corsa al potere contemporanea: tutta la sua vicenda, come quella dell’odierna umanità, è un mescolarsi di sangue e petrolio. Il secondo non può scorrere senza che il primo non sia abbondantemente stato versato (citando il minaccioso titolo originale) come contropartita. E Plainview ne versa, di sangue, perché sulla sua strada dell’ossessione, come sulla strada tra Achab e Moby Dick, non si deve frapporre nessuno: né il figlio adottivo, che tiene con sé solo come esca emotiva per attirare gli affaristi; né il sedicente fratellastro, un innocuo imbroglione; né soprattutto la sua nemesi, un giovane predicatore istrionico e arrivista, che lo eguaglia in ambizione. Tutti verranno allontanati o spazzati via, e il loro rosso fluido vitale, reale o metaforico, sarà un prezioso additivo alla formula vincente dell’oro nero.
Chi poteva interpretare un moderno titano quale Plainview (aggiudicandosi un secondo meritato omino d’oro) se non Daniel Day-Lewis? L'anti-divo irlandese è noto soprattutto per odiare la razza umana e per preparare le sue performances dopo interi anni di meticoloso studio e immedesimazione. Per queste sue caratteristiche estreme, il petroliere gli calza a pennello. Anderson lo sa bene, ed è estremamente riluttante a toglierlo dalle inquadrature, sia per il valore dell'attore, sia per un intento più profondo. Se uno dei suoi precedenti capolavori, Magnolia, era una grande opera corale, qui i personaggi di contorno, pur delineati da brevi inquadrature taglienti e poche battute, soccombono alla prepotenza visiva del petroliere. Molte le scene in cui Plainview si rivolge a un gruppo di astanti, e la macchina da presa non si stacca praticamente mai da lui, riluttante a concedere il classico controcampo che mostri le reazioni dei suoi spettatori.
Con Il petroliere Paul Thomas Anderson è riuscito a raggiungere e a superare con un solo personaggio tutte le patologie esistenziali dei suoi numerosi personaggi precedenti: le nere, liquide profondità dell’animo umano (il sottosuolo della California?) hanno vomitato un distorto titano, che ci affascina con la sua ciclopica parabola di potere e ci disturba con il lato oscuro della sua rapacità da uomo moderno. Un vero e proprio epos contemporaneo, che anziché fondare delle nuove certezze, fa traballare quelle poche rimaste.
Articolo del
07/03/2008 -
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