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Marta, neolaureata con lode in filosofia, si ritrova improvvisamente catapultata nel mondo del (non) lavoro, vagando fra varie case editrici, con le quali gli incontri si concludono però sempre allo stesso modo: un poco promettente «le faremo sapere». Approdata quasi per caso in un call center, e diventata a tutti gli effetti una lavoratrice precaria, la ragazza scoprirà quali reali dinamiche si nascondano sotto un sistema mascherato di collaborazione e fratellanza.
Ci si trova in difficoltà ad analizzare un film che si apre in maniera ironicamente onirica, prosegue su binari quasi iper-realistici, abbraccia il grottesco in più di un’occasione e si conclude a metà strada fra la tragedia e la favola. L’indecisa amalgama dei toni ben rispecchia l’andamento “precario” della storia, attraverso la raffigurazione di un “relativo” (termine più volte ribadito nel film, servendosi del pretesto filosofico) quasi universale. Esso comprende la sfera lavorativa solamente come una delle proprie (numerose) componenti, fra le quali figura non secondariamente quella sentimentale. L’instabilità con la quale si ritrova a fare i conti Marta è più generalmente esistenziale, e investe la vita nella sua totalità. La gerarchia rappresentata dal film è una piramide della quale non si riescono a scorgere né le fondamenta, né la cima. Nuovi livelli di degradamento umano si palesano gradualmente, così come l’apparentemente onnipotente leader può rivelarsi una pedina nelle mani di un burattinaio, e così via, all’insegna dell’insicurezza dettata dall’homo homini lupus. Per questo sarebbe limitante politicizzare l’ultima, notevole, opera di Paolo Virzì riducendola a una semplicistica parabola sul tema del precariato, d’attualità soprattutto se collocato nell’odierna campagna elettorale.
A volte forse ciò non basta a cancellare l’ombra di figure leggermente stereotipate, come nel caso del sindacalista interpretato da Valerio Mastandrea (per quanto divertente) o dell’improvvisata madre tratteggiata da Micaela Ramazzotti (la quale però si riscatta nella parte finale). Il risultato resta comunque piacevolmente sorprendente, coadiuvato da una regia che riesce quasi sempre a valorizzare ritmicamente lo svolgersi della storia, nonostante un accavallarsi di finali fin troppo rapido e frettoloso. In questo senso potremmo azzardare a dire che qualche minuto in meno avrebbe giovato al prodotto finale. Molto convincente appare anche la fotografia di Nicola Pecorini, che riesce a deformare grottescamente gli imponenti (e solo apparentemente amichevoli) ambienti di lavoro della Multiple.
Un’ultima nota di merito va al cast, con Isabella Ragonese e Elio Germano in primis, accanto agli ormai veterani Massimo Ghini e Sabrina Ferilli. La prima vanta già una notevole esperienza di scrittrice/attrice teatrale (l’esordio cinematografico solamente nel 2006 con l’acclamato Nuovomondo di Emanuele Crialese), e riesce a mantenere per l’intera pellicola una recitazione controllata, per quanto sottilmente versatile. Il secondo è ormai una garanzia di qualità (almeno parziale, considerando unicamente le sue interpretazioni) per i film che hanno la fortuna di valersene. E nel cinema italiano contemporaneo, fra centinaia di attori/attrici più presunti che tali, e irrimediabilmente omologati dal mezzo televisivo, non è affatto poco.
Articolo del
31/03/2008 -
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